TRA MASCHERE E SUONI
Già dalle prime due stanze la mostra ti permette di immergerti nel mondo creativo di David, ma soprattutto facilita i visitatori (soprattutto quelli più giovani come me) a contestualizzare i suoni dell’artista in quello che era il mondo inglese degli anni ’60.
Quello che mi colpisce fin da subito è la maniacale curiosità dell’artista che fin da ragazzo lo porta ad approfondire stili musicali diversi, ma anche modalità espressive che poi sfoceranno in altri tipi di arte come il disegno.
Questa curiosità ai miei occhi geniale ma anche un po’ compulsiva e senza pace la ritroverò in tutto il suo percorso e quindi in quello della mostra.
David Bowie’s love affair with Japanese style –
Uno degli elementi che più mi è rimasto impresso è lo stile del designer di abbigliamento Yamamoto che risulterà davvero geniale ed eclettico. Non credo sia casuale l’attrazione che David aveva nei confronti del Giappone e dello stile dei vestiti di Yamamoto che si rifacevano al teatro giapponese Kabuki… palcoscenico, esprimere emozioni tramite maschere, l’attenzione ossessiva verso ogni dettaglio fino alla “costruzione” di scenografie e personaggi che cambiano ogni volta che si racconta una nuova storia, la possibilità da parte di attori maschili di impersonificare anche personaggi femminili… ecco, trovo che tutti questi elementi possano essere attribuiti sia al modo di vedere l’espressione artistica di David, sia appunto al Kabuki.
“What the music says may be serious (…) and I, the performer, am the message” –
La sua capacità camaleontica di cambiare personaggio e di ritrovarsi simbioticamente a contatto con esso ogni volta è travolgente e cosi la sua personalità aveva ogni volta una sfumatura diversa… Un impegno venale con la musica e i suoi attori, talmente intenso da fargli perdere forse ogni tanto la differenza tra se e l’attore. Credo che il cortometraggio da lui stesso creato rappresenti alla perfezione la sensazione che a me è arrivata più volte durante la prima metà della mostra: link a “The Mask”
Semplicemente per una mia personale attitudine nell’avvicinarmi alla musica a volte mi perdevo in tutti quei lustrini e paillettes ed ero a tratti divertita a tratti stuccata da tutto ciò. E’ difficile per me avvicinarmi davvero alla musica di un’artista ritrovandomi di fronte a tante maschere e mantelli. Ma arrivata nella sala Berlinese questa sensazione è sparita e proprio in mezzo a quei suoni elettronici, minimali e grezzi ho ritrovato un David Bowie un po’ più umano che era scappato dalla confusione di L.A. per ritrovare forse anche un po’ se stesso.
Ringrazio Paola, Marco e Andrea per avermi aiutato ad avvicinarmi e ad apprezzare di più questo grande artista.
Martina