1 | Five Years | 4:44 |
02 | Soul Love | 3:33 |
03 | Moonage Daydream | 4:35 |
04 | Starman | 4:13 |
05 | It Ain’t Easy | 3:00 |
06 | Lady Stardust | 3:20 |
07 | Star | 2:50 |
08 | Hang On To Yourself | 2:40 |
09 | Ziggy Stardust | 3:13 |
10 | Suffragette City | 3:25 |
11 | Rock ‘n’ Roll Suicide | 3:00 |
Informazioni
Data di uscita
16 Giugno 1972
Registrato
Trident Studios, Londra – 9 Settembre 1971/2 Febbraio 1972
Produzione
David Bowie e Ken Scott
Recensione
Dal 9 settembre 1971 al 2 febbraio 1972: queste le date del lento progredire della fusione di materiale eterogeneo (Ziggy Stardust come concept album è un mito sfatato da tempo) ma pensato per/destinato a cambiare il volto del pop-rock. Non a caso cresce costantemente il numero di chi cita, artisti e non, Ziggy (l’album, il personaggio, la sua epopea) come momento seminale della propria formazione. Recensire oggi quest’opera, di cui si sa praticamente tutto, equivale a chiedersi il perché di questa durevole importanza. Ziggy Stardust è la metafora del viaggio: certo quello dello starman che, sceso dallo spazio con funzione salvifica, è destinato a restare incompreso. Ma soprattutto è un viaggio dentro sé stessi, al fine di scandagliare la propria memoria e un io già prismatico: come nel surrealismo (Bowie citerà Dalì cripticamente nella foto di Aladdin Sane e palesemente nel testo di Diamond Dogs) in cui le lucentezze di paesaggi infiniti si popolano di mille visioni. Ma Ziggy Stardust è anche molte altre cose: è un gioco di citazioni (più o meno palesi: It ain’t easy o il ritornello di Starman; non musicali nei richiami ad Arancia Meccanica); è il senso innato per la melodia (Lady Stardust); è la capacità visionaria (Moonage Daydream); è la presenza del dolore e dell’inevitabile (Five Years e R’n’R Suicide) che convive col desiderio d’amore (Soul Love e Lady Stardust); è la maschera (Star e Ziggy) e il volto (Hang on to yourself e Suffragette City); è solipsismo e compartecipazione (la figura messianica dell’artefice ma anche il suo essere in un gruppo). È dunque l’album delle dicotomie: anche in senso musicale, laddove sferzanti chitarre e batterie in primo piano convivono con orchestrazioni opulente o coretti elementari. È l’album del sogno e dell’infrangersi dello stesso: lo scintillante starman atterra in un vicolo che, non fosse per la rossa cabina telefonica, potrebbe essere tutti i luoghi e nessuno. La sua modernità sempre attuale è proprio in questa compresenza di perdita dell’unità pur mantenendo l’eccezionalità dell’ “uno”, per rivelare le frammentarie sfaccettature di un reale dove il visto si confonde con l’immaginato, la citazione con la creazione. Forse non è cristallino come Hunky Dory, o non è un meccanismo a orologeria come Aladdin Sane, ma è perfetto per il suo momento storico poiché colma lo scontento di una generazione che non aveva ancora uno specchio da attraversare per perdersi in un luogo, dove l’importante è nel dubbio e non più nelle certezze. E David Bowie? Lui già allora non era più un semplice cantante/autore ma aveva intrapreso il suo apprendistato (che negli anni si farà più consapevole) da artista, come un nuovo Wilhelm Meister, perdendosi e ritrovandosi nella ricerca della modernità.
di Pierluigi Buda – Heathen958
Musicisti
David Bowie
(voce, chitarra, sax)
Mick Ronson
(chitarra, piano, voce, mellotron, sintetizzatore)
Trevor Bolder
(basso)
Mick Woodmansey
(batteria e percussioni)
Rick Wakeman
(Clavicembalo su “It Ain’t Easy”)
Dana Gillespie
(Coro su “It Ain’t Easy”
Crediti
Brian Ward
(foto di copertina)
Terry Pastor
(Grafica di copertina e retro)
David Bowie e Mick Rock
(Arrangiamenti)