Il Diario di Nathan Adler

Diari Nathan Adler Bowie Traduzione Testo

THE DIARY OF NATHAN ADLER OR THE ART-RITUAL MURDER OF BABY GRACE BLUE

IL DIARIO DI NATHAN ADLER
O L’OMICIDIO ARTISTICO-RITUALE DI BABY GRACE BLUE

PREFAZIONE

Biondo, bel viso aristocratico di intellettuale inglese, occhi perversi diversi l’uno dall’altro: così mi apparve David Bowie sulla copertina di un suo album la prima volta che Adriana e Tito Schipa me lo fecero ascoltare tanti anni fa. Sapevo che era stato un Mod di Londra, che aveva lavorato come mimo e ballerino con Lindsay Kemp, che si era lasciato ispirare da l’ “Odissea nello Spazio” di Kubrick, che si era fatto fotografare vestito alla Laureen Bacall, che aveva vissuto un terribile dramma con le anfetamine e la cocaina, che aveva scritto una canzone per Andy Warhol, che aveva fatto un film con Marlene Dietrich, che aveva impersonato un extraterrestre nel film concettuale L’Uomo Che Cadde Sulla Terra, che aveva letto “City of the Night” di John Rechy e i libri di Jack Kerouac, che stimava Neal Cassady e, passaporto per me definitivo, che nel 1974 era diventato amico di William Burroughs e aveva scritto per lui Diamond Dogs. Ora, 1995, William Burroughs si è riaffacciato nella creatività di David Bowie. Dopo aver cambiato tante volte vena da venir definito “L’Uomo dalle mille facce” o “Mr. Camaleonte”, nel nuovo album OUTSIDE Bowie ha affrontato con Brian Eno la realizzazione elettronica dei cut-ups di William Burroughs, i collages letterari da questi usati la prima volta in “Minutes to go” nel 1959 con Brion Gysin e poi nella trilogia degli Anni Sessanta “The Soft Machine” (La morbida macchina), “Nova Express” e “The Ticket That Exploded” (Il biglietto che esplose). Bowie aveva già provato la tecnica dei cut ups di Burroughs nel 1973 nelle composizioni che sarebbero uscite qualche anno dopo negli album Low, “Heroes” e Lodger; ma per OUTSIDE ha detto in un’intervista: “Ho preparato un nuovo programma nel mio computer capace di mescolare alla rinfusa i miei scritti verso per verso, tre parole per tre parole, e produrre composizioni di immagini e descrizioni del tutto diverse da quello che avevo programmato; una specie dei cut ups di Bill Burroughs da macchina elettronica. Ho fatto in pochi secondi quello che dal 1973 avevo fatto con colla e forbici”. L’influenza di Burroughs non si limita alla tecnica compositiva. Nel narrare la storia di OUTSIDE, intitolata da lui “I diari fittizi del detective Nathan Adler” (col sottotitolo “L’Assassinio rituale artistico di Baby Grace Blue”), Bowie ha detto che “è stata per lui una rivelazione ritornare ai personaggi musicali dopo non aver lavorato in quello stile dal Thin White Duke del 1976. Anche la strana località scelta, New Oxford Town, alludeva chiaramente alla rovina psichica che era Diamond Dogs”. OUTSIDE vuole dunque rivelare che cos’è un outsider e per farlo racconta la storia del “detective d’arte Nathan Adler e delle sue investigazioni in una serie di cosiddetti assassinii rituali d’arte, scippi concettuali e altri vari e caotici misfatti”. E’ una storia che non si svolge più, come ci ha abituati Bowie, nello spazio della fantascienza, o nel suo caro mondo androgino, o nella invenzione del suo video pop ma nelle drammatiche, a volte sadiche, a volte macabre, fantasie di Burroughs. Sono le fantasie definite nella letteratura americana “neo-gotiche”: il dramma dell’orrore, inventato secoli fa dagli scrittori inglesi e risuscitato in America oltre che nella narrativa popolare, in una certa letteratura del Sud, spesso in William Faulkner o in Carson McCullers o in William Goyen o più di recente in Joyce Carol Oates. Così la prima parte del diario racconta il dissezionamento della quattordicenne Baby Grace, nelle cui braccia vengono infilati sedici aghi ipodermici che vi inseriscono agenti coloranti mentre il diciassettesimo ne estrae tutto il sangue, lo stomaco viene squartato, gli intestini asportati e appesi all’ingresso del Museo di Parti Moderne. Questo era certamente un omicidio, ma era arte? si chiede l’investigatore, che si considera uno hacker, un disturbatore di computers. Nel descrivere il prossimo delitto, Nathan Adler cita i rituali di sangue di Herman Nitsch, leader del Wiener Aktionismus, e parla di un luogo dove si può assistere alla rimozione di pezzi di corpo umano sotto anestetico; nel successivo parla di un artista eroinomane e sieropositivo che si infila aghi da calza nella fronte ridotta a una corona di sangue e di un negro al quale viene scalpellato il dorso. A questo punto l’artista dichiara di occuparsi dei problemi di chi si odia, soffre, guarisce e si redime. Prima della redenzione Bowie presenta il Centro Caucasico del Suicidio con la sua sacerdotessa RAMONA; poi una gamba di donna bianca che sporge da un bagno di smalto nero, due neonati incollati l’uno all’altro coperti di perle con la colla che impedisce alla pelle di respirare e li fa morire, uno stilista che disegna cappelli per Vogue coprendo le facce delle modelle di mosche o vespe morte e teste di vitelli scuoiati con le lingue penzoloni. Era questa arte? si chiede l’investigatore; ma, dice, i surrealisti considererebbero antiquata l’opera. Queste di Bowie sono immagini neogotiche, risolte con la tecnica del cut up di Burroughs; di lui non sono presenti però i riferimenti sessuali ai quali ci ha abituato, per esempio coi suoi fascinosi efebi dai capezzoli rosati, impiccati col pene eretto nell’ultimo orgasmo. Ma le poesie, le liriche del disco, sono bellissime, da grande poeta, con versi stagliati nella disperazione come lo sono i cut ups di Burroughs. La sua abilità non gli viene dalla scuola ma dalle sue traumatiche esperienze di vita: da quando a dodici anni il fratello maggiore gli ha fatto leggere Jack Kerouac e conoscere Neal Cassady, Bowie si è chiuso in se stesso e, ha detto in un’intervista, si è sentito “emarginato a causa dell’indifferenza dei genitori: questo mi ha fatto scattare la voglia di rompere con i tabù. Il grigiore e il perbenismo mi infastidivano. Mi immaginavo di essere come Neal Cassady”. Così a quindici anni abbandonò la scuola e da autodidatta attraversò il mondo; e entrò nel caos dell’ambiguità sessuale, uno dei temi base della sua vita e della sua poesia. “Ero una persona molto triste” dice nelle interviste. Nei suoi versi, intrisi di significati oscuri, riversò i suoi dubbi verso se stesso, e da personaggio “rock” quale si trovò ad impersonare, cercò di esprimere le emozioni pure che lo assillavano, mentre spiegava nelle interviste: “Ciascuno crea il suo doppio e poi lo riempie di tutte le sue colpe e poi lo distrugge… Mi sembrava più facile vivere attraverso un altro io. Il problema era che così sfumava il confine tra normalità e follia”. Nel caos sessuale e esistenziale nel quale si dibatteva (attento alla massima di Burroughs: “C’era un senso nel rispondere con il caos a quei tempi caotici”, e attentissimo alle espressioni poetiche dei suoi contemporanei, specialmente Bob Dylan e Jim Morrison, grandi poeti più ancora che grandi compositori), infranse in modo personalissimo la barriera tra arte alta e arte bassa. Si scoprì simbolista, disse: “Per un simbolista, che è quello che sono io, personaggi e situazioni sono manifestazioni di cose che non si possono spiegare”. Si dedicò alla ricerca di se stesso, a risolvere il suo senso di solitudine, a spiegare che quando ha parlato di alieni non alludeva ai personaggi della fantascienza ma agli individui che sono alieni gli uni agli altri, come lui si sentiva alieno nella sua famiglia. Continuò a credere in Dio. “Molte mie canzoni sembrano preghiere: preghiere di riuscire a trovare l’unità di me stesso. Ho una fiducia incrollabile nell’esistenza di Dio. La mia vita è stata una continua ricerca del mio tenue legame con Dio. Mi sentivo solo perché avevo abbandonato Dio”. Così “l’uomo dalle mille facce” ha affermato: “L’ultima incarnazione che voglio incontrare faccia a faccia è me stesso”. In questo OUTSIDE, che noi certo speriamo non sarà “l’ultima incarnazione”, riversa in liriche tragiche la sua sfiducia nel domani: qualunque cosa sia ad accadere, canta, è oggi che accade, e comunque accade fuori, fuori dalla nostra portata, fuori di noi. Con questa premessa invoca un futuro che non c’è per lui che ha perso la strada e crede di essere già nella tomba in un fantastico abisso di morte… Povera anima, continua, non seppe mai che cosa lo aveva colpito, e fu un bel colpo: parla il suo cervello, ma la volontà di vivere è morta e le preghiere non arrivano così lontano. A ucciderlo, forse, è il caos in cui vive senza sapere se gli piacciono le ragazze o i ragazzi. Qui si vive di ora in ora, canta, si prende quello che si può: è una vita che riconosce la morte inodore, non c’è inferno, non c’è vergogna: una vita nell’ombra della vanità. Signore, invoca Bowie, tirami fuori di qui, suona la campana: va tutto bene, il 20° secolo muore. Ecco la tua ombra sulla mia parete, continua, ecco cosa avrei potuto essere se non avessi strappato il tessuto, se il tempo non si fosse fermato, se avessi pagato il conto. Stare lontano dal futuro, fuggire dalla luce, stare fermi nel proprio angolo, non confidare a Dio i propri piani: non c’è controllo, ogni singola mossa è incerta, non posso controllare il mio destino. Cala l’ansietà, continua Bowie, avevamo tanti desideri, al principio, ma abbiamo vissuto vite insopportabili. La rivelazione arriva nel modo più strano: voglio venire in fretta e morire. Dove sono finiti i fiori, canta riprendendo un tema caro agli Anni Sessanta. Fino alla conclusione drammatica, forse (purtroppo) autobiografica: “Non c’è ritorno”. Sono liriche tragiche, ripeto, bellissime, da grande poeta, intrise di una sofferenza che è sempre il prezzo della poesia: la sofferenza che lo accomuna ai suoi grandi compagni di strada, come lui forse più poeti che compositori.

Fernanda Pivano
Roma, 1-14 agosto 1995

It was at precisely 5:47 am on the morning of Friday 31 of December 1999 that a dark spirited pluralist began the dissection of 14-year-old “Baby Grace”.

The arms of the victim were pin-cushioned with 16 hyperdermic needles, pumping in four major preservatives, colouring agents, memory information transport fluids and some kind of green stuff.

From the last and 17th, all blood and liquid was extracted. The stomach area was carefully flapped open and the intestines removed, disentangled and re-knitted as it were, into a small net or web and hung between the pillars of the murder-location, the grand damp doorway of Oxford Town Museum of Modern Parts, New Jersey. The limbs of Baby were then severed from the torso.

Each limb was implanted with a small, highly sophisticated, binary-code translator which in turn was connected to small speakers attached to far ends of each limb.

The self-contained mini amplifiers were then activated, amplifying the decoded memory info-transport substances, revealing themselves as little clue haikus, small verses detailing memories of other brutal acts, well documented by the ROMbloids.

The limbs and their components were then hung upon the splayed web, slug-like prey of some unimaginable creature.

The torso, by means of its bottom-most orifice, had been placed on a small support fastened to a marble base. It was shown to varying degrees of success depending upon where one stood from behind the web but in front of the Museum door itself, acting as both signifier and guardian to the act.

It was definitely murder – but was it art?

All this was to be the lead-up to the most provocative event in the whole sequence of serial-events that had started around November of that same year, plunging me into the most portentous chaos-abyss that a quiet lone-hacker like myself could comprehend.

My name is Nathan Adler, or Detective Professor Adler in my circuit.

I’m attached to the division of Art-Crime Inc., the recently instigated corporation funded by an endowment from the Arts Protectorate of London, it being felt that the investigation of art-crimes was in itself inseparable from other forms of expression and therefore worthy of support from this significant body.

Nicolas Serota himself had deemed us, the small-fry of the division, worthy of an exhibit at last year’s Bienniale in Venice, three rooms of evidence and comparative study work which conclusively proved that the cow in Mark Tansey’s “The Innocent Eye Test” could not differentiate between Paulus Potter’s “The Young Bull” of 1647 (exactly 300 years before I was born, incidentally) and one of Monet’s grain stack paintings of the 1890’s.

The trad-itional art press deemed this extrapolation “bullshit” and removed itself to study the more formal ideas contained in Damien Hirst’s “Sheep In A Box”.

Art’s a farmyard.
Its my job to pick thru the manure heap looking for peppercorns.

Era esattamente alle 5:47 del mattino di venerdì 31 dicembre 1999 quando un tetro pluralista iniziò la dissezione della quattordicenne “Baby Grace”.

Le braccia della vittima erano trafitte da 16 aghi ipodermici, che pompavano quattro principali conservanti, agenti coloranti, fluidi per il trasporto di informazioni mnemoniche e una sorta di sostanza verde.

Dall’ultimo e 17° ago, tutto il sangue e i liquidi furono estratti. La zona dello stomaco fu accuratamente aperta a lembo e gli intestini rimossi, districati e ri-intrecciati, per così dire, in una piccola rete o ragnatela e appesi tra i pilastri del luogo del delitto, il grande umido portale del Museo di Parti Moderne di Oxford Town, New Jersey. Gli arti di Baby furono poi recisi dal torso.

Ogni arto fu impiantato con un piccolo, traduttore di codice binario altamente sofisticato che a sua volta era collegato a piccoli altoparlanti attaccati alle estremità di ciascun arto.

I mini amplificatori autonomi furono quindi attivati, amplificando le sostanze decodificate per il trasporto di informazioni mnemoniche, rivelandosi come piccoli haiku indiziari, brevi versi che dettagliavano ricordi di altri atti brutali, ben documentati dai ROMbloidi.

Gli arti e i loro componenti furono poi appesi alla ragnatela distesa, prede simili a lumache di qualche inimmaginabile creatura.

Il torso, mediante il suo orifizio più basso, era stato posto su un piccolo supporto fissato a una base di marmo. Era visibile con vari gradi di successo a seconda di dove ci si trovasse dietro la ragnatela ma davanti alla porta del Museo, fungendo sia da significante che da guardiano dell’atto.

Era sicuramente omicidio – ma era arte?

Tutto questo doveva essere il preludio all’evento più provocatorio dell’intera sequenza di eventi seriali iniziata intorno a novembre dello stesso anno, gettandomi nel più portentoso abisso di caos che un tranquillo hacker solitario come me potesse comprendere.

Il mio nome è Nathan Adler, o Detective Professor Adler nel mio circuito. Sono assegnato alla divisione di Art-Crime Inc., la corporazione recentemente istituita finanziata da una dotazione del Protettorato delle Arti di Londra, ritenendo che l’indagine sui crimini d’arte fosse in sé inseparabile da altre forme di espressione e quindi degna di sostegno da parte di questo importante ente.

Nicolas Serota stesso aveva ritenuto noi, i pesci piccoli della divisione, degni di una mostra alla Biennale di Venezia dell’anno scorso, tre stanze di prove e lavoro di studio comparativo che dimostravano in modo conclusivo che la mucca in “The Innocent Eye Test” di Mark Tansey non potesse distinguere tra “Il Giovane Toro” di Paulus Potter del 1647 (esattamente 300 anni prima che io nascessi, tra l’altro) e uno dei dipinti di covoni di grano di Monet degli anni 1890.

La stampa artistica tradizionale ha ritenuto questa estrapolazione “stronzate” e si è spostata a studiare le idee più formali contenute in “Pecora in una scatola” di Damien Hirst.

L’arte è un’aia. Il mio lavoro è frugare nel mucchio di letame alla ricerca di grani di pepe.

As in any crime, my first position is to pursue the motive-gag.
The recent spate, thru 89-99, of concept-muggings pretty much had me pulling breath for an art-murder. It was a crime whose time was now. The precedents were all there.
It had probably its beginnings in the ’70s with the Viennese castrationists and the blood-rituals of the Nitsch.
Public revulsion put the lid on that episode, but you cant keep a good ghoul down.

Spurred on by Chris Burdens having himself shot by his collaborator in a gallery, tied up in a bag, thrown on a highway and then crucified upon the top of a Volkswagen, stories circulated through the nasty-neon of NY night that a young Korean artist was the self-declared patient of wee-hours surgery in cut and run operations at not-so-secret locations in the city. If you found out about it, you could go and watch this guy having bits and pieces removed under anaesthetic. A finger-joint one night, a limb another.
By the dawning of the ’80s, rumor had it that he was down to a torso and one arm.

He’d asked to be left in a cave in the Catskills, fed every so often by his acolytes. He didn’t do much after that.
I guess he read a lot. Maybe wrote a whole bunch.
I suppose you never can tell what an artist will do once he’s peaked.

Round this same time, Bowie the singer remarked on a coupla goons who frequented the Berlin bars wearing full surgery regalia: caps, aprons, rubber gloves and masks. The cutting edge. Then came Damien Hirst with the Shark-Cow-Sheep thing.
No humans, palatable ritual for the worldwide public.
The acceptable face of gore.

Meanwhile in the US, 1994, I was in town on the night of the Athey scarifications.

Come in ogni crimine, il mio primo istinto è seguire la pista del movente. La recente ondata, tra l’89 e il 99, di rapine concettuali mi aveva praticamente fatto trattenere il respiro in attesa di un omicidio artistico. Era un crimine il cui momento era giunto. I precedenti c’erano tutti. Probabilmente aveva avuto inizio negli anni ’70 con i castrazionisti viennesi e i rituali sanguinari di Nitsch. La ripugnanza pubblica mise fine a quell’episodio, ma non si può tenere a bada un bravo ghoul.

Spronati da Chris Burden che si era fatto sparare dal suo collaboratore in una galleria, legare in un sacco, gettare su un’autostrada e poi crocifiggere sul tetto di una Volkswagen, circolavano voci tra i neon malevoli della notte newyorkese che un giovane artista coreano si era auto-dichiarato paziente di interventi chirurgici notturni in operazioni taglia e fuggi in luoghi non troppo segreti della città. Se ne venivi a conoscenza, potevi andare a guardare questo tizio farsi asportare pezzi sotto anestesia. Una falange una notte, un arto un’altra. All’alba degli anni ’80, si diceva che fosse ridotto a un torso con un solo braccio.

Aveva chiesto di essere lasciato in una grotta sui monti Catskill, nutrito di tanto in tanto dai suoi accoliti. Dopo non fece più molto. Immagino leggesse parecchio. Forse scrisse un bel po’. Suppongo non si possa mai dire cosa farà un artista una volta raggiunto l’apice.

Più o meno nello stesso periodo, il cantante Bowie fece notare un paio di brutti ceffi che frequentavano i bar di Berlino indossando l’intero kit chirurgico: cuffie, camici, guanti di gomma e maschere. L’avanguardia. Poi arrivò Damien Hirst con la faccenda dello Squalo-Mucca-Pecora. Niente umani, un rituale digeribile per il pubblico mondiale. Il volto accettabile della violenza grafica.

Nel frattempo negli Stati Uniti, nel 1994, mi trovavo in città la notte delle scarificazioni di Athey.

Ron Athey, performance artist not for the squeamish – former heroin addict-HIV positive, pushes what looks like a knitting needle repeatedly into his forehead, a crown of blood, must hurt like hell.
Stream red dribble-dribble. No screams. Face moves in pain.
Carried upstage and scrubbed down in his own blood. Then water. Now dresses in nice suit and tie. Now in black T-shirt and jeans, carving, with a disposable scalpel, patterns, into the back of Darryl Carlton, a black man. Bloody blotted paper towels then hung on a washing line suspended over the heads of the audience. Blood-prints from life.
An extremely limited edition. When it was first performed back in March, “Four Scenes In A Harsh Life” exploded controversy shrapnel through-out the National Endowment For the Arts. ‘
We have taken every precaution with our disposal systems,” an Athey spokes-person said. “The towels containing the blood are immediately deposited in hazardous-waste bags.
Each evening, the material will be driven to a hospital for final disposal.”
Athey says he is dealing with issues of self-loathing, suffering,healing and redemption.

Ron Athey, artista performativo non adatto ai deboli di stomaco – ex eroinomane, HIV positivo, si spinge ripetutamente quello che sembra un ferro da maglia nella fronte, una corona di sangue, deve far male come l’inferno. Flusso rosso gocciola-gocciola. Nessun urlo. Il viso si contrae per il dolore. Viene portato sul fondo del palco e strofinato nel suo stesso sangue. Poi acqua. Ora si veste con un bel completo e cravatta. Ora in maglietta nera e jeans, incide, con un bisturi usa e getta, dei motivi sulla schiena di Darryl Carlton, un uomo di colore. Asciugamani di carta insanguinati e macchiati vengono poi appesi a un filo per il bucato sospeso sopra le teste del pubblico. Stampe di sangue tratte dalla vita. Un’edizione estremamente limitata. Quando fu rappresentata per la prima volta lo scorso marzo, “Quattro Scene in una Vita Dura” fece esplodere schegge di controversia in tutto il National Endowment For the Arts. “Abbiamo preso ogni precauzione con i nostri sistemi di smaltimento”, ha detto un portavoce di Athey. “Gli asciugamani contenenti il sangue vengono immediatamente depositati in sacchi per rifiuti pericolosi. Ogni sera, il materiale sarà trasportato in un ospedale per lo smaltimento finale.” Athey dice che sta affrontando temi di disprezzo di sé, sofferenza, guarigione e redenzione.

I’m drinking up the Oxford Town, New Jersey fume. Salty and acid. Maybe I can get a handle on this thing back in Soho at the bureau. It used to be Rothko’s studio, now the playground for all us Art-Crime folk, AC’s or “the daubers” as we’re dubbed. Rothko himself, in a deep-dark-drunk one night, carefully removed his clothes, folded them up neatly, placing them upon a chair, lay upon the floor in a crucified position and after several attempts, found the soft blue pump of his wrists and checked out. He’d held the razor blades between wads of tissue paper so that he wouldn’t cut his fingers. Deep thinker. Always was.

Sto bevendo bene Oxford Town. Fumi del New Jersey. Salati e acidi. Forse posso venire a capo di questa faccenda tornando all’ufficio a Soho. Era lo studio di Rothko, ora il parco giochi per tutti noi della Criminalità Artistica, CA o “gli imbrattatori” come ci chiamano. Rothko stesso, in una notte di profonda e oscura ubriachezza, si tolse con cura i vestiti, li piegò ordinatamente, posandoli su una sedia, si sdraiò sul pavimento in posizione crocifissa e dopo diversi tentativi, trovò la morbida pompa blu dei suoi polsi e si congedò. Aveva tenuto le lame di rasoio tra batuffoli di carta velina per non tagliarsi le dita. Un pensatore profondo. Lo è sempre stato.

The only names the Data bank can associate with Baby Grace are Leon Blank, Ramona A. Stone and Algeria Touchshriek. The rundowns are brief but not to the point:

Ramona A Stone:
Female. Caucasian. Mid-40s. Assertive maintenance interest-drug dealer and Tyrannical Futurist. No convictions. Contacts: Leon Blank, Baby Grace Blue, Algeria Touchshriek

Leon Blank:
Male. Mixed Race. 22 years. Outsider. Three convictions for petty theft, appropriation and plagiarism without license. Contacts: Baby Grace Blue, Algeria Touchshriek

Algeria Touchshriek:
Male. Caucasian. 78 years. Owner of small establishment on Rail Yard. Oxford Town, NJ. Deals in art-drugs and DNA prints. Fence for all apparitions of any medium. Harmless, lonely.

Small cog, no wheels. Not much to go on but R.A. Stone weighs heavy on my memory. No problem. It’ll come back.
Best thing to do now is feed all relevant pieces into the Mack-Verbasiser, the Metarandom programme that re-strings real life facts as im-probable virtual-fact.
I may get a lead or two from that.

Gli unici nomi che la Banca Dati può associare a Baby Grace sono Leon Blank, Ramona A. Stone e Algeria Touchshriek. I profili sono brevi ma non concisi:

Ramona A Stone:
Femmina. Caucasica. Sui 45. Assertiva spacciatrice di droga che mantiene interesse e Futurista Tirannica. Nessuna condanna. Contatti: Leon Blank, Baby Grace Blue, Algeria Touchshriek

Leon Blank:
Maschio. Razza mista. 22 anni. Outsider. Tre condanne per furto minore, appropriazione e plagio senza licenza. Contatti: Baby Grace Blue, Algeria Touchshriek

Algeria Touchshriek: Maschio. Caucasico. 78 anni. Proprietario di un piccolo esercizio commerciale nel Deposito Ferroviario. Oxford Town, NJ. Tratta in droghe artistiche e stampe DNA. Ricettatore per tutte le apparizioni su qualsiasi supporto. Innocuo, solitario.

Pesce piccolo, nessun ingranaggio. Non c’è molto su cui lavorare, ma R.A. Stone pesa molto nella mia memoria. Fa niente. Mi tornerà in mente. La cosa migliore da fare ora è inserire tutti i pezzi rilevanti nel Mack-Verbalizzatore, il programma Metacasuale che ricompone fatti della vita reale come im-probabili fatti virtuali. Potrei ottenere una pista o due da quello.

Jesus Who. I hate typing. Anyhow, we’ve got some real interesting solvents from Mack-random. How about this! Verbasiser down-load, first block:

No convictions of assertive saints believed Caucasian way-out tyrannical evoked no images described Christian saints questions no female christian machine believed no work is caucasian assertive saints believed female described christian tyrannical questions R.A. Stone convictions martyrs and tyrannicals are evoked Female described sado-masochist questions I am suicide described the fabric machine Slashing way out saints and martyrs and thrown downstairs

Now the swirl begins. Now the image stack backs up and takes center stage. Ramona A. Stone, I remember this thickness, this treacly liquid thought. But wait, I’m ahead of myself.

Gesù santo. Odio scrivere a macchina. Comunque, abbiamo dei solventi davvero interessanti dal Mack-caos. Che ne dici di questo! Scaricamento del Verbalizzatore, primo blocco:

Nessuna condanna di santi assertivi credeva modo caucasico fuori di testa tirannico non evocava immagini descriveva santi cristiani domande nessuna macchina cristiana femminile credeva nessun lavoro è caucasico santi assertivi credevano femminile descriveva domande cristiane tiranniche R.A. Stone condanne martiri e tirannici sono evocati Femminile descriveva domande sadomasochiste Io sono suicidio descriveva la macchina tessuto Squarciando santi fuori di testa e martiri e gettati giù per le scale

Ora il turbine comincia. Ora la pila di immagini arretra e prende il centro della scena. Ramona A. Stone, ricordo questa densità, questo pensiero liquido e melassoso. Ma aspetta, sto andando troppo avanti.

Its two in the morning. I can’t sleep fro the screaming of some poor ostracized Turkish immigrant screaming his guts out from over the street. His hawking shriek sounds semi-stifled like he’s got a pillow over his mouth. But the desperation comes through the spongy rubber like a knife.
It cuts the breeze and bangs my eardrums.

I take a walk past the fabric machine, turn left onto a street with no name. The caucasian suicide center, naked and grimy, silhouetted by fungus yellow street lamps female slashing way-out saints for a dollar a time thrown downstairs if you can’t take any more.
Pure joy of retreat into death, led by the shepherdess.
Anti mixed-race posters pasted upon their altar of pop-death icons party people. A zero with no name looks dull-eyed to Ms. Stone, the drone that says “in the future, everything was up to itself”. Yea.
I remember Ramona. She set herself up as the no-future priestess of the Caucasian Suicide Temple, vomiting out her doctrine of death-as-eternal-party into the empty vessels of Berlin youth.
The top floor rooms were the gateways to giving up to the holy ghost. She must have overseen more than 30 or 40 check-outs before the local squad twigged what was going down.

Sono le due del mattino. Non riesco a dormire per le urla di qualche povero immigrato turco ostracizzato che sta urlando le sue budella dall’altra parte della strada. Il suo grido stridulo suona semi-soffocato come se avesse un cuscino sulla bocca. Ma la disperazione attraversa la gomma spugnosa come un coltello. Taglia la brezza e mi colpisce i timpani.

Faccio una passeggiata oltre la macchina tessile, giro a sinistra in una strada senza nome. Il centro suicidi caucasico, nudo e sudicio, si staglia contro i lampioni giallo fungo femmine che squarciano santi fuori di testa per un dollaro a volta buttati giù per le scale se non ne puoi più. Pura gioia della ritirata nella morte, guidata dalla pastorella. Manifesti anti-razza mista incollati sul loro altare di icone pop-morte gente festaiola. Uno zero senza nome guarda con occhi spenti la signorina Stone, il drone che dice “nel futuro, tutto dipendeva da se stesso”. Sì. Ricordo Ramona. Si era proposta come la sacerdotessa del non-futuro del Tempio del Suicidio Caucasico, vomitando la sua dottrina della morte-come-festa-eterna nei vasi vuoti della gioventù berlinese. Le stanze all’ultimo piano erano i portali per arrendersi allo spirito santo. Deve aver supervisionato più di 30 o 40 check-out prima che la squadra locale capisse cosa stava succedendo.

New Yorker magazine, advance copy, celebrating fashion. It’s a first of a kind since Tina Brown took over as editor.
One look is all it took.

It took the look and wrote a new book on what sophi-staplites would take and bake.
Guy Bourdin featured heavily in this new eDISHion.

Since the advent of AIDS and the new morality, and, of course his death, his dark sexy fatal style had fallen out of Vogue.

An uncompromising photographer, he had found a twisty avenue through desire and death. A white female leg sticking gloomily out of a bath of black liquid enamel.

Two glued up babes covered in tiny pearls. The glue prevented their skins from breath-ing and they pass out.

“Oh it would be beautiful,” he is to have said, “to photograph them dead in bed.” He was a French Guy. He had known Man Ray. Loved Lewis Carroll. His first gig was doing hats for Vogue.
He’d place dead flies or bees on the faces of the models, or, female head wears hat crushed beneath three skinned calves heads, tongues lolling.

What was this? Fine Arts? The surrealists might even think his work passé.

Well, it was the ’50s, thats what it was. The tight-collar ’50s seen through unspeakable hostility.

He wanted but he couldn’t paint. So he threw globs of revengeful hatred at his nubile subjects. He would systematically pull the phone cord out of the wall. He was never to be disturbed.

Disturbed. Never.

Everything and everyone died around him. One shoot focusing upon a woman lying in bed was said to be a reconstruction of his estranged wife’s death. Another picture has a woman in a phone booth making some frantic call.

Her hand is pressed whitely against the glass. Behind her and outside are two female bodies partially covered by the autumn leaves. His dream, so he told friends, was to do shoots in the morgue, with the stiffs as mannequins. I don’t know. I just read this stuff. Now his spirit was being resurrected.

We’re mystified by blood. It’s our enemy now.

We don’t understand it. Can’t live with it.

Can’t, well… y’know?

Rivista New Yorker, copia anticipata, celebra la moda. È una prima assoluta da quando Tina Brown è diventata direttrice. È bastato uno sguardo.

Ha lanciato uno sguardo e ha scritto un nuovo libro su cosa i sofisticati avrebbero preso e cucinato. Guy Bourdin è presente in modo massiccio in questa nuova eDIZIONE.

Dall’avvento dell’AIDS e della nuova moralità, e, ovviamente, dalla sua morte, il suo stile scuro, sexy e fatale era uscito di Vogue.

Fotografo intransigente, aveva trovato un tortuoso viale tra desiderio e morte. Una gamba femminile bianca che spunta tetramente da una vasca di smalto liquido nero.

Due bambole incollate coperte di minuscole perle. La colla impediva alle loro pelli di respirare e svengono.

“Oh, sarebbe bellissimo,” si dice abbia detto, “fotografarle morte a letto.” Era un tipo francese. Aveva conosciuto Man Ray. Amava Lewis Carroll. Il suo primo ingaggio era stato fare cappelli per Vogue. Metteva mosche o api morte sui volti delle modelle, o, testa femminile indossa cappello schiacciato sotto tre teste di vitello scuoiate, lingue penzolanti.

Cos’era questo? Belle arti? I surrealisti potrebbero persino considerare il suo lavoro passé.

Beh, erano gli anni ’50, ecco cos’era. Gli anni ’50 dal colletto stretto visti attraverso un’indicibile ostilità.

Voleva dipingere ma non ci riusciva. Così gettava grumi di odio vendicativo sui suoi soggetti nubili. Staccava sistematicamente il cavo del telefono dalla parete. Non doveva mai essere disturbato.

Disturbato. Mai.

Tutto e tutti morivano intorno a lui. Un servizio incentrato su una donna sdraiata a letto si diceva fosse una ricostruzione della morte della sua moglie separata. Un’altra foto mostra una donna in una cabina telefonica che fa una chiamata frenetica.

La sua mano è premuta, bianca, contro il vetro. Dietro di lei e all’esterno ci sono due corpi femminili parzialmente coperti dalle foglie autunnali. Il suo sogno, così diceva agli amici, era di fare servizi all’obitorio, con i cadaveri come manichini. Non so. Ho solo letto queste cose. Ora il suo spirito stava per essere resuscitato.

Siamo mistificati dal sangue. È il nostro nemico ora.

Non lo capiamo. Non possiamo vivere con esso.

Non possiamo, beh… sai?

After surgery and investment in a bullet-proof mask, Ramona turned up in London, Canada as owner of a string of body-parts jewellery stores.

Lamb penis necklaces, goat-scrotum purses, nipple earrings, that sort of thing.

The word on the street, however, suggested that it was not in the best of interests to become one of her clients as occasionally, a customer would step into her shop and not come out again.

The whistle blew after a much-loved and highly respected celebrity, known for being known, failed to show for a gallery-hanging of her mirrors.

Other celebrities, equally known for being known, some only to each other, thought it the most profound exhibit in years and couldn’t take their eyes off the works.

All the pieces sold within an hour, many for record prices.

When the critic for Tate magazine asked for an interview with the celebrity-artist, the gallery owner recalled that he hadn’t seen her since earlier that day.

She’d mentioned that she would be going shopping for a diamond-encrusted umbilical cord as a celebratory thing to announce her pregnancy.

She would be back in an hour. Just a quick stop at the “Gallstone”. 1986.

That pregnancy would have produced a being that would be around 14 years of age.

If it was still alive.
To be continued…

Dopo un intervento chirurgico e l’investimento in una maschera antiproiettile, Ramona ricomparve a London, in Canada, come proprietaria di una catena di gioiellerie di parti del corpo.

Collane di pene d’agnello, borse di scroto di capra, orecchini di capezzoli, quel genere di cose.

La voce di strada, tuttavia, suggeriva che non fosse nel migliore interesse diventare uno dei suoi clienti, poiché occasionalmente un cliente entrava nel suo negozio e non ne usciva più.

Il fischio d’allarme suonò dopo che una celebrità molto amata e altamente rispettata, nota per essere nota, non si presentò all’allestimento in galleria dei suoi specchi.

Altre celebrità, ugualmente note per essere note, alcune solo tra di loro, lo considerarono l’esposizione più profonda da anni e non riuscivano a staccare gli occhi dalle opere.

Tutti i pezzi furono venduti entro un’ora, molti a prezzi record.

Quando il critico della rivista Tate chiese un’intervista con la celebrità-artista, il proprietario della galleria ricordò di non averla vista dal primo pomeriggio.

Aveva accennato che sarebbe andata a fare shopping per un cordone ombelicale tempestato di diamanti come gesto celebrativo per annunciare la sua gravidanza.

Sarebbe tornata entro un’ora. Solo una rapida sosta al “Calcolo biliare”. 1986.

Quella gravidanza avrebbe prodotto un essere che ora avrebbe circa 14 anni.

Se fosse ancora vivo.
Continua…

Traduzione Daniele Federici © DavidBowieItalia

Autore

  • DBI Crew PIC Profile 2

    La Crew al timone di David Bowie Italia | Velvet Goldmine è formata da Daniele Federici e Paola Pieraccini. Daniele Federici è organizzatore di eventi scientifici ed è stato critico musicale per varie testate, tra cui JAM!. È autore di un libro su Lou Reed del quale ha tradotto tutte le canzoni. Paola Pieraccini, imprenditrice fiorentina, è presente su VG fin dall'inizio e lo segue dagli anni '70. Entrambi hanno avuto modo di incontrare Bowie come rappresentanti del sito.

    Visualizza tutti gli articoli
Sottoscrivi
Notificami
guest

Questo sito utilizza Akismet per ridurre lo spam. Scopri come vengono elaborati i dati derivati dai commenti.

0 Commenti
Più vecchio
Più recente I più votati
Feedback in linea
Visualizza tutti i commenti