La celebre e spregiudicata intervista, rilasciata dopo l’uscita di Station To Station, in cui Bowie esprime “confuse” simpatie per ideologie non propriamente democratiche.
DAVID BOWIE intervistato da Cameron Crowe
Playboy, settembre 1976
Candida conversazione con il cantante-unisex più famoso del mondo. ribelle, anticonformista, spregiudicato: è il grande profeta della rivolta totale del pop Un tempo, era un consumato cantante folk dai capelli dorati. Poi il frivolo direttore di un gruppo pop sul genere dei Beatles. Poi un compositore e cantante di ballate, decisamente bisessuale. Poi ancora un ingombrante chitarrista androgino dai corti capelli rossi accompagnato da un gruppo che si chiamava “I Ragni di Marte “. Poi un cantante “soul “. Poi un attore del cinema.., e per finire un presentatore alla Sinatra, brillantemente conservatore. David Bowie, lo possiamo dire con tutta tranquillità, farebbe qualsiasi cosa pur di riuscire. E adesso che è riuscito, farebbe qualsiasi cosa pur di conservare il successo.
A 29 anni, David Bowie (nato David Jones a Brixton in Inghilterra) è molto di più di qualsiasi divo del rock. In realtà è un calcolato manipolatore dei mass-media, privo di qualsiasi senso di tatto o di intimidazione. La sua carriera, eclettica e bizzarra, non ha che un obiettivo: catturare l’attenzione del pubblico. Se non avesse questa, senza dubbio appasssirebbe e si spegnerebbe (possibilmente davanti a un folto pubblico di spettatori). Nell’aprile 1975, Bowie annunciò clamorosamente che rinunciava al rock. “E’ una noiosa strada senza uscita. Non farò più dischi di rock’n’roll né tournées. Non voglio più essere un inutile, fottuto cantante di rock “. Era la seconda volta che faceva un tale annuncio. La prima volta l’aveva fatto a Londra, nel 1972, durante un bis, a un affollato concerto all’aperto: subito dopo incise Diamond Dogs e si impegnò per una tournée americana di tre mesi. questa volta Bowie fece il discorso d’addio in modo ancora più spettacolare. Il novembre scorso combinò un’intervista via satellite dalla sua casa di Los Angeles con il più popolare intervistatore inglese, Russell Hart, per annunciare che aveva un nuovo album di rock’n’roll, Station to Station.
Come se non bastasse, aggiunse, borbottando, che sarebbe partito per una tournée di sei mesi intorno al mondo. Nel frattempo il governo spagnolo chiedeva di poter usare il satellite per annunciare la morte del generalissimo Franco. Bowie, come un ragazzino dispettoso, rifiutava di concedere la linea. Non si può certo dire che Bowie sia molto amato nel mondo della musica: eppure ha lasciato la sua impronta. Quando si presentò per la prima volta su un palcoscenico americano, nel ’72, in spalla al suo chitarrista, era truccato in piena regola e indossava un abito deliziosamente femminile. Nacque immediatamente un genere nuovo, il rock sofisticato, il rock ” a scossa “, il rock non più innocente. Mick Jagger e i Rolling Stones, Elton John, Alice Cooper, Todd Rundgren, Lou Reed, Queen, Roxy Music, Slade, T. Rex e Cockney Rebel lo imitarono.
Avendo travolto tutti in quella sua prima tournée degli Stati Uniti, non gli ci volle molto perché il suo 33 giri su un dannato semidio del rock, The Rise and Fall of Ziggy Stardust and The Spiders from Mars, balzasse in testa alle classifiche. I suoi tre album precedenti, fermi fino a quel momento, cominciarono a vendere vertiginosamente. La stampa non perse tempo a proclamare Bowie il più grande avvenimento dopo i Beatles. Con la stessa velocità si mise ad attaccare il fenomeno. Insinuavano che c’era forse qualcosa di poco… pulito nel gruppo bisessuale di Bowie. Il mondo musicale e i critici fecero immediatamente lega per ribellarsi alla decadenza di Bowie. Ma nel frattempo lui aveva assunto una nuova facciata, anche se ugualmente ridicola: quella di ” disco soul”. Dall’oggi al domani, questo fragile, sfacchinato cantante di rack puro si gettò sui “blues” . E funzionò. Collezionò due grossi successi, Young Americans e Fame. E finalmente arrivò il riconoscimento finale: fu uno dei pochissimi bianchi ad essere invitato al ” Soul Train”.
Per favorire questa larga base del suo successo, Bowie aveva assunto la posa del vecchio uomo di scena con pantaloni neri e gilé indossato sopra una camicia bianca. Station to Station raggiunse il traguardo di vendita di 500.000 dollari. La successiva tournée intorno al mondo, finita da poco, e’ stata un “tutto esaurito ” ad ogni tappa. Adesso, proprio nel momento dell’apice, questo re-regina del rock minaccia di mantenere la promessa, una volta tanto. Ha sempre sostenuto di essere un vero divo del cinema: la sua esibizione nel recente film di Nicolas Roeg (Walkabout, Don’t look now, Performance) ha avuto molti apprezzamenti, La scelta di Bowie per il ruolo principale e’ stata, secondo il New York Times, “ispirata. Bowie recita magnificamente “. Così ci è parso che fosse arrivato il momento di metterci al passo con la crociata di Bowie-come lui la chiama-per conquistare il mondo.
Abbiamo quindi mandato Cameron Crowe, giornalista e collaboratore dei Rolling Stones, a intervistare il più arrogante superdio che abbia mai invaso i mass-media degli anni ’70. Ecco quanto ci riferisce: “Le mie conversazioni con Bowie ebbero inizio già ai primi del ’75. Alcune di queste sedute furono addirittura delle specie di maratone. Per quanto stimolante fosse la conversazione, dopo un’ora che stava seduto Bowie non riusciva più a controllarsi. “Non potremmo fare una piccola sosta?”, scoppiava. Senza neppure aspettare la risposta, balzava in piedi e scattava via: a volte per scrivere una canzone o due, a volte invece per buttare giù un quadro. Una volta terminò la seduta chiedendo una lista di 20 oggetti scelti a caso. Gliela diedi. Lui studiò la lista per 10 secondi, me la restituì e la recitò a memoria. Dall’inizio alla fine e viceversa”.
Bowie è sottilmente affascinante, sia in compagnia di un noioso pezzo grosso del cinema, sia di un altro musicista, sia di un completo sconosciuto. E’ del tutto conscio di essere una formidabile macchina di citazioni. Tanto più sono scioccanti le sue rivela
zioni, dai suoi incontri omosessuali alle sue tendenze fasciste, tanto più lui se ne compiace. Sa benissimo che cosa vogliono gli intervista
tori e ha l’ abilità di dare loro esattamente questo. La verità che ne scaturisce non può che essere incoerente “.
PLAYBOY: Cominciamo con la domanda che ho l’impressione lei cerchi di evitare: in che misura la sua bisessualità è una realtà e in che misura è un trucco?
BOWIE: E’ vero, sono bisessuale. Non posso però negare di avere sfruttato questo fatto molto bene. Penso che sia la cosa migliore che mi sia mai successa. E anche divertente. Comunque sviscereremo a fondo quest’argomento.
PLAYBOY: Perché lei dice che è la cosa migliore che le sia mai successa?
BOWIE: Bene, per esempio, le ragazze in genere presumono che io abbia mantenuto la mia verginità eterosessuale per qualche ragione particolare. Così non fanno tutte che tentare di riportarmi all’altra sponda. “Su, David, non è poi così male. Lascia che te lo provi”. O ancora meglio: ” Ti faremo vedere noi”. Io faccio sempre finta di essere tonto. Dall’altra parte-sono sicuro che lei vorrà sapere anche dell’altra parte-quando compii quattordici anni, improvvisamente il sesso divenne molto importante per me. Non mi faceva nessuna differenza con chi o con che cosa lo facevo, purché fosse un’esperienza sessuale. In genere si trattava di qualche bel ragazzo scelto in qualche scuola. Lo portavo a casa e me lo facevo sul mio letto al piano di sopra. E questo era tutto. Il mio primo pensiero era: “Bene, se mai finirò in prigione, saprò come passarmela”.
PLAYBOY: Il che non sarebbe stato molto piacevole per i suoi compagni di cella più normali.
BOWIE: Sono sempre stato molto sciovinista anche nei giorni in cui ero ossessionato dai ragazzi. Ma ero sempre un gentiluomo. Ho sempre trattato i miei ragazzi come delle vere signore. Li ho sempre educatamente scortati e in realtà penso che se fossi un po’ più vecchio-se avessi quaranta o cinquant’anni-sarei un perfetto protettore per qualche ragazzino di Kensington. Avrei anche un cameriere di nome Richard da far trottare ai miei ordini.
PLAYBOY: Ma quanto di tutto ciò dovremmo credere? La sua precedente agente, la famosa Cherry Vanilla, sostiene di avere dormito con lei e che lei non è affatto omosessuale, ma che le piace far “pensare” che le piacciono gli uomini.
BOWIE: Mi piacerebbe proprio conoscere quest’impostore di cui parla Cherry, ma di sicuro non sono io. Comunque è una bella citazione. Cherry è abile quasi quanto me nell’usare i mass-media.
PLAYBOY: Resta però il fatto che non la si è mai vista con un amante di sesso maschile. Come lo spiega?
BOWIE: Mio Dio, ho smesso di essere omosessuale molto tempo fa. Per un po’ di tempo lo ero al 50 per cento, adesso ho delle tentazioni solo quando sono in Giappone. Che bei ragazzini ci sono in quel paese! Ragazzini? Non sono poi tanto giovani. Hanno sui 18-19 anni. La loro mentalità è davvero straordinaria. Sono tutti omosessuali fino ai venticinque anni, poi di colpo diventano samurai, si sposano e fanno centinaia di bambini. Io adoro tutto questo.
PLAYBOY: Come mai, in un momento in cui nessun altro nel mondo del rock avrebbe osato neppure alludervi, lei ha scelto di sfruttare la bisessualità?
BOWIE: Direi che è stata l’America a costringermi. Una volta, in un’intervista – penso che fosse il 1971 – qualcuno mi domandò se ero omosessuale. Al che risposi: “No, sono bisessuale”. Questo tipo, uno scrittore di una casa editrice inglese, non aveva la più pallida idea di che cosa volesse dire. Così dovetti spiegarglielo. Naturalmente il tutto venne stampato e così ebbe origine tutta la storia. Che tempi! Il Sett
antuno fu davvero un ottimo anno per l’America. Il sesso faceva ancora scalpore e tutti volevano vedere il fenomeno. Ma ignoravano completamente quello che facevo. Prima che io comparissi in scena, si parlava pochissimo della bisessualità e del “gay power”. Senza volerlo, io diedi il via a tutto ciò. Al tempo del mio arrivo in America, la parola “omosessuale” non si sentiva mai. Ci sono voluti un bel po’ di scandali e di dicerie sul mio conto perché gli omosessuali si decidessero a dire: “Disconosciamo David Bowie”. E lo fecero, mi sembra ovvio. Sapevano benissimo che non rappresentavo ciò per cui si battevano. Nessuno capiva il mio modo europeo di vestire e le mie pose asessuate, androgine. Tutti gridavano: “E’ truccatissimo e indossa degli stracci che sembrano vestiti”. Tuttavia non fui io il primo a pubblicizzare la bisessualità.
PLAYBOY: Chi lo fu?
BOWIE: Dean. James Dean lo fece, molto bene e molto abilmente. Ho delle mie intuizioni personali su questo fatto. Probabilmente Dean mi assomigliava molto. Elizabeth Taylor me lo disse una volta. Non era per nulla un menefreghista, né il ribelle che impersonò con tanto successo. Non voleva morire. Però credeva negli eccessi, negli estremi come mezzo per raggiungere una dimensione più profonda della propria personalità. James Dean impersonò proprio quello che oggi è così rispettabile, cioè il prostituto uomo. Era parte del suo incredibile magnetismo. Un fempo batteva Times Sq. per guadagnare abbastanza da poter frequentare la scuola di Lee Strasberg e -diventare un Marlon Brando. La reputazione che aveva non era certo delle migliori. Io lo ammiro immensamente e questo dovrebbe rispondere alla domanda che lei potrebbe farmi sul fatto che io abbia o meno degli eroi.
PLAYBOY: Ma lei non fa fatica a convincere gli altri a crederle? Prendiamo, per esempio, i suoi molto pubblicizzati addii al mondo dello spettacolo. Lei si è ritirato due volte, giurando che non avrebbe mai avuto più niente a che fare col rock’n’roll. Eppure ha appena terminato una tournée di sei mesi per lanciare il suo recentissimo album Station to Station. Come spiega queste contraddizioni?
BOWIE: Semplicissimo, dico bugie. E’ facilissimo da fare. Non c’è niente che abbia importanza eccetto quello che io sto facendo in quel dato momento. Non posso certo ricordarmi tutto quello che dico. Non me ne frega niente. Né posso ricordarmi quanto ci credo e quanto non ci credo. L’unica cosa che mi importa è di crescere come persona. Non ho la minima idea di cosa sarò l’anno venturo: un pazzo scatenato, un figlio dei fiori, un dittatore o un reverendo, chi lo sa. E questo è quel che mi impedisce di annoiarmi.
PLAYBOY: Che parte hanno avuto le droghe nella sua musica?
BOWIE: La musica non è che un’estensione di me stesso, quindi la domanda dovrebbe piuttosto essere: “Che cosa mi hanno fatto le droghe?” Penso che mi abbiano solo fottuto. In un modo piacevole, intendiamoci, e non mi è certo dispiaciuto di provarle.
PLAYBOY: Lei è quindi d’accordo con quel critico che ha definito il suo album Young Americans come un fottuto 33 giri di un fottuto divo del rock?
BOWIE: In verità, l’album che più ha risentito delle droghe è The man who sold the wor1d. Allora ero davvero partito. Young Americans viene subito dopo, ma fa già parte del periodo che sto vivendo adesso, dal punto di vista della droga. The man l’ho fatto proprio nel periodo in cui avevo questa passione per l’hashish. Non appena ho smesso di fumare, mi sono reso conto che spegneva la mia immaginazione e questo fatto segnò la fine delle droghe leggere.
PLAYBOY: Quanto lei mi dice non mi sembra però credibile, visto che è stato recentemente arrestato a New York per possesso di marijuana.
BOWIE: Stia tranquillo, non era mia. Non posso dire molto di più, ma le assicuro che era delle persone che si trovavano con me quando la polizia ha fatto irruzione nella stanza. Che porci! Che ironia, essere arrestati per possesso di erba quando quella roba mi fa davvero vomitare. Tanto è vero che non la tocco da un sacco di tempo.
PLAYBOY: Però nella sua canzone Station to Station c’è un riferimento alla cocaina.
BOWIE: É vero. Dice: “Non sono gli effetti collaterali della cocaina… Penso che sia l’amore”. Immagino che le stazioni radio la censurino.
PLAYBOY: No, non credo. Aveva delle riserve su questa frase?
BOWIE: No, assolutamente.
PLAYBOY: Ma qualcuno la potrebbe interpretare come una difesa dell’eroina. E’ forse questo il messaggio?
BOWIE: Io non ho messaggi di nessun tipo. Non ho veramente nulla da dire, né suggerimenti o consigli da dare. Mi limito a dare qualche idea che costringa la gente ad ascoltarmi ancora per un po’. Ma alla fine sono “loro” a trovare il messaggio e così mi risparmiano la fatica. Tutta la mia carriera è stata così; posso sempre fare quel che voglio senza che mi succeda mai nulla.
PLAYBOY: Lei sostiene che le piace lavorare tutto il tempo, eppure fa uscire soltanto un album all’anno. Che cosa fa in tutto questo tempo?
BOWIE: Scrivo canzoni, sceneggiature e poesie. Dipingo, faccio fotografie, mi amministro, recito, produco, registro, a volte viaggio. Potrei darle sui due piedi almeno cinque album nuovi fiammanti. Ho accumulato tanto di quel materiale! Non faccio che lavorare.
PLAYBOY: Ma lei non si riposa mai?
BOWIE: Se lei mi sta chiedendo se non faccio mai vacanze la risposta è no. Io mi rilasso lavorando: e su questo punto sono serio. Ho sempre pensato che la sola cosa da fare fosse di provare a vivere come “Superman”. Come persona normale mi sentivo davvero troppo insignificante. Non potrei vivere pensando che la sola cosa che importa nella vita è di essere una “brava” persona. Ho sempre pensato: “Cazzo, non voglio essere l’ennesimo, onesto Joe, voglio essere un essere superiore e migliorare, i miei attributi del 300 per cento… Penso che sia possibile farlo”.
PLAYBOY: Potrebbe allora darci qualche esempio di questo auto-miglioramento?
BOWIE: Quando ho cominciato a scrivere non ero capace di mettere insieme più di tre o quattro parole. Adesso penso di saper scrivere molto bene. Vado scoprendo che ogni volta che guardo qualcosa e penso che è stato un uomo a farla, mi rendo conto di poterla fare anch’io, forse meglio. Altro esempio: non sapevo nulla di cinema. Ma proprio nulla. Così decisi di procurarmi un mucchio di film, i più belli, e me li studiai da solo. É stata un’ottima idea. Adesso posso dire di avere una conoscenza approfondita dell’arte cinematografica. Sono diventato un ottimo attore e sarò un eccellente regista e produttore. É tutta questione di decidere che cosa si vuol fare.
PLAYBOY: Scusi, ma lei non dubita mai di se stesso?
BOWIE: Adesso quasi mai. Due anni fa mi resi improvvisamente conto che non ero che un prodotto del mio personaggio. Così decisi di ristabilire la mia identità e pian piano mi sono spogliato delle sovrastrutture. Ogni settimana, seduto sul letto, sceglievo una delle cose che non mi piacevano o che non capivo. E nel corso della settimana facevo il possibile per liberarmene.
PLAYBOY: Qual è stato il primo bersaglio di quest’operazione?
BOWIE: La mia mancanza di humor, mi sembra. E poi l’arroganza: non capisco perché io mi debba sentire superiore a tutti. Su questo punto devo raggiungere una conclusione che non ho ancora raggiunto. Ma così sono costretto continuamente a scavare dentro di me ed è un’ottima terapia.
PLAYBOY: Ma il fatto di sezionarsi e squartarsi tutto il tempo alla fine non la rende un po’ schizofrenico?
BOWIE: Se sono schizofrenico? Una parte di me probabilmente lo è, ma l’altra parte è solida come una roccia. In realtà non sono affatto schizofrenico. Penso però che le forme del mio pensiero siano molto frammentarie, mi pare ovvio. Spesso penso a cinque o sei cose contemporaneamente. E tutte si interrompono l’una con l’altra. Non va certo molto bene quando si è alla guida.
PLAYBOY: Non ha mai avuto problemi a decidere quale sia il suo vero io?
BOWIE: Ho imparato a vivere con me stesso. Francamente non so dove sia il vero David Jones; è un po’ come il gioco delle bucce di pisello. Il problema è che ho così tante bucce che mi sono dimenticato come è fatto il pisello. In tal modo non lo riconoscerei neppure se lo trovassi. Il fatto che sono famoso mi aiuta a dimenticare il problema di trovare me stesso. Questa è la ragione principale per cui voglio assolutamente essere ammirato e per cui continuo a lottare e a sfruttare il mio cervello artisticamente. Voglio assolutamente lasciare una traccia, nel mio… campo s’intende. Io ce l’ho fatta solo fingendo. Posso considerarmi responsabile per la nuova scuola di impostori che è nata con me. Loro sanno chi sono, non è vero, Elton? Sto scherzando, anzi non scherzo. Vede cosa voglio dire: anche questa era un’affermazione “pretenziosa”: vera o falsa che sia, scommetto che la scriverà. Il fatto è che la gente si annoia se le si danno cose in cui predominino l’analisi intellettuale e il pensiero analitico. Ma se le sì dà qualcosa di pretenzioso, se ne starà lì attentissima. È la sola cosa che sia ancora in grado di scioccare, proprio allo stesso modo di Dylan quattordici anni fa, o del sesso, molti anni fa.
PLAYBOY: Lei sta forse dicendo che il sesso non sciocca più?
BOWIE: Suvvia, dico, il sesso non è mai stato veramente scioccante, lo era solo la gente che lo praticava. Adesso nessuno ci fa più caso:, la gente non fa che chiavarsi in continuazione. La sola cosa in grado di scioccare al giorno d’oggi è l’estremo: bisogna proprio colpirli sulla testa perché reagiscano.
PLAYBOY: È questa la sua formula magica del successo?
BOWIE: È sempre stata questa. Non è mai cambiata. Per esempio, quel che ho fatto col mio Ziggy Stardust è stato di impaccare un credibilissimo cantante di celluloide, molto meglio di quanto abbiano mai fatto gli altri, i Monkees per esempio. Voglio dire che il mio cantante di celluloide era molto meglio di quello di qualsiasi altro. Ed era quello di cui c’era bisogno in quel momento. E lo è ancora adesso. La maggior parte delle persone desidera che i suoi idoli e i suoi dei siano vuoti all’interno come giocattoli da poche lire. Perché mai lei pensa che gli adolescenti sono come sono? Vanno in giro come formiche, masticando gomma americana e seguendo una moda diversa ogni giorno: questo è il massimo della profondità cui vogliono arrivare. Quindi non c’è da stupirsi se Ziggy è stato un gran successo.
PLAYBOY: É questa la ragione per cui lei ha detto di essere diventato Ziggy a un certo momento?
BOWIE: Senza neanche pensarci un minuto. All’inizio impersonavo quel personaggio soltanto sulla scena. Ma poi tutti cominciarono a trattarmi come se io fossi Ziggy, come se fossi “Il Massimo”, come se veramente fossi in grado di dominare intere masse. Davvero pauroso. Però mi sono risvegliato abbastanza presto.
PLAYBOY: Non ha mai paura di perdere i suoi fans, non pensa mai che loro si stufino di ascoltarla?
BOWIE: Ma loro devono capire che io non sono mai stato un musicista.
PLAYBOY: Ma che cosa è allora?
BOWIE: La sfortuna è che ho sempre desiderato di essere un regista. Ma poi i due mass-media si sono intrecciati nel mio inconscio, di modo che facevo dei film in dischi. Questo fatto produce l’album di concetto, che alla fine diventa un po’ come un cavallo da tiro. Adesso so che quando faccio un album devo fare un album che mi piaccia musicalmente; altrimenti preferisco fare un film. Molti dei miei album di concetto come Aladdin Sane, Ziggy e Diamond Dogs sono riusciti solo al 50 per cento. Avrebbero dovuto essere anche visivi. In realtà penso che gli attori più dotati in circolazione siano proprio i cantanti di rock. E sarà proprio dal rock che verrà fuori una nuova era del cinema.
PLAYBOY: Ma lei ha detto che trovava il rock deprimente, sterile e perfino cattivo.
BOWIE: Ma è deprimente, sterile e perfino cattivo, in ultima analisi. Tutto quel che contribuisce alla stasi è cattivo. Quando il rock ha in sé l’elemento familiare, non è più rock, è solo rumore bianco, canto funebre. Guardi per esempio la musica “disco”: non è che uno stupido ritmo senza fine. E’ davvero pericolosa. Così ho proseguito sulla mia strada. Ho messo in chiaro che io sono un uomo di spettacolo, David Bowie, e non soltanto l’ennesimo, noioso cantante di rock. Ho fatto un film con Nicolas Roeg, The man who fell to earth, e ne farò molti altri, non mi lascerò sfuggire nessuna occasione. Il momento che ci si sente al sicuro, si è morti. E’ finita. Ed essere al sicuro è l’ultima cosa che io voglio. Voglio andare a letto tutte le sere dicendo: “Se mai mi sveglio di nuovo, posso almeno dire di avere “vissuto” finché ero vivo”.
PLAYBOY: Torniamo alla musica “disco”. Lei dice che è un canto funebre, eppure il suo Fame è stato il disco più venduto dell’anno scorso e quest’anno Golden Years è in testa alle classifiche. Come lo spiega?
BOWIE: Adoro la musica “disco”. E’ il delizioso modo di evadere di un fuggitivo. Mi piace molto purché non la si senta alla radio giorno e notte, come in questi giorni. Fame era un bluff incredibile. Però ha funzionato, cosa davvero lusinghiera. Andrò avanti a fare di tutto fino a quando sbaglierò. E se riesco, me ne vado lo stesso. Sono stralunato all’idea che la gente balli coi miei dischi. Ma siamo onesti, bisogna riconoscere che i miei blues sono decisamente plastici. Anzi direi che Young Americans, l’album che contiene Fame, è il disco “soul” più plastico che ci sia sul mercato. Ma se lei mi avesse fatto sentire Young Americans cinque anni fa e mi avesse detto: “Questo album è di R e B”, avrei riso come un matto.
PLAYBOY: E se avessi detto: “Questo sarà il suo album fra cinque anni?”.
BOWIE: Avrei buttato fuori di casa lei e il disco.
PLAYBOY: Che cosa pensa della versione di Barbra Streisand della sua canzone Life on Mars?
BOWIE: Terribile. Mi spiace, Barb, ma era davvero atroce.
PLAYBOY: Lei non è certo famoso per i suoi rapporti cordiali con i suoi colleghi. Eppure si è detto che lei è andato in Europa per passare un periodo con Bob Dylan. E’ vero?
BOWIE: Questa poi! Se sono anni che non mi muovo da questo maledetto paese! Ho visto Dylan a New York sette od otto mesi fa. Non abbiamo molto da dirci. Non siamo affatto buoni amici, anzi penso che lui mi odi.
PLAYBOY: Come vi sieti incontrati?
BOWIE: Eravamo andati a casa di qualcuno dopo una serata in un night. Eravamo andati tutti a trovare questa persona. Non mi ricordo chi fosse. E c’era anche Dylan. Ero in uno stato mentale un po’… verboso. E così andai avanti a parlargli per ore e ore. Non so se lo divertivo o lo spaventavo o gli facevo schifo. Non aspettavo mai risposte: andavo avanti a parlare di tutto e di tutti. Poi gli diedi la buona notte. Non l’ho più sentito da allora.
PLAYBOY: Ma Dylan che impressione le ha fatto?
BOWIE: Vorrei sapere che impressione ho fatto io a lui! Io ero convinto che quel che gli dicevo fosse molto importante, cosa che comunque penso sempre. E’ molto tempo, davvero, che nessuno mi colpisce veramente.
PLAYBOY: Vuol dire che c’è stato un altro musicista che l’ha colpito?
BOWIE: Sì, Gil Evans e forse Ricky Ricardo. Mi piace molto conoscere altri artisti ma è difficile che mi colpiscano particolarmente. Mi colpiscono invece le persone normali, cioè le persone che non partecipano al gioco del potere. So benissimo che il gioco del potere scatta immediatamente, ma in questo campo so di essere meglio di tutti loro e quindi non mi interessano, insomma tra me e gli altri non c’è competizione.
PLAYBOY: Come le è venuto in mente di diventare un cantante rock?
BOWIE: Vuole la verità? Ero in bolletta sparata. Così entrai nel rock perché era un modo piacevole di fare soldi e di guadagnare tempo in attesa della mia prossima mossa. Prima ero un pittore, studiavo arte all’Istituto tecnico di Bromley. Ho provato anche a lavorare nella pubblicità, ma era “osceno”. Il punto più basso che abbia mai raggiunto. Me la cavavo molto bene col sassofono e così pensai: “Proviamo il rock”. Col rock ci si può divertire e in genere si guadagna abbastanza da vivere. Specialmente ora. Erano i giorni della “moda”: avere dei bei vestiti era molto importante.
PLAYBOY: Ma i bei vestiti costano cari.
BOWIE: A quell’epoca non tanto. Abitavo vicino ai bidoni della spazzatura sul retro di Carnaby Street; Carnaby Street era molto di moda, prima che tutti la scoprissero. Ci stavano i sarti migliori di quel momento: erano tutti italiani, raffinatissimi, e se qualche camicia non aveva un bottone o aveva il minimo difetto, finiva nella pattumiera. Bastava andare in giro a tirare fuori la roba dai bidoni per farsi degli interi guardaroba gratis. C’era solo da attaccare un bottone o da rifare una cucitura. Mi ricordo di quando rubavo tutto perché volevo, a tutti i costi, essere vestito alla moda. A quell’epoca cercavamo tutti di diventare degli Elvis Presley e non si faceva che passare da una piccola banda all’altra. Sono passato da vari gruppi: uno si chiamava “David Jones and the Buzz”, un altro “David Jones and the Lower Third”, un altro ancora era di mimi e si chiamava “The Feathers”.
PLAYBOY: E’ vero che è stata sua moglie Angela a farle avere il suo primo contratto con una casa discografica?
BOWIE: Andò così: ci conoscevamo perché uscivamo con lo stesso ragazzo. Una volta, un altro dei suoi ragazzi, un talent scout della Mercury Records, la accompagnò a uno spettacolo alla Roundhouse, dove per caso suonavo anch’io. A quest’individuo io non piacqui affatto, ma lei invece mi trovò bravissimo. In breve, lei minacciò di lasciarlo se lui non mi faceva un contratto. E lui me lo fece.
PLAYBOY: E come si risolse poi la situazione con il vostro comune ” boyfriend”?
BOWIE: Angela ed io ci sposammo e continuammo a vederlo entrambi.
PLAYBOY: Perché l’ha sposata?
BOWIE: perché mi ero reso conto che era una delle pochissime donne con cui potessi vivere per più di una settimana. E’ davvero piacevole tornare a casa da lei. Io sono un tipo molto esigente, non necessariamente dal punto di vista fisico, ma da quello mentale. Sono molto energetico, molto intenso in tutto quello che faccio. Nessuno ce la fa a vivere con me, dopo un po’ se ne vanno tutti.
PLAYBOY: Ma lei si era veramente innamorato di Angela?
BOWIE: Io non sono mai stato innamorato. Forse una sola volta ed è stata un’esperienza orribile. Era come essere malati; ero completamente prosciugato, incancrenito, una cosa davvero odiosa. Mi sembra che l’amore sia solo negativo: si prova rabbia, gelosia, eccetera; insomma tutto, tranne che amore. É un po’ come il cristianesimo o qualsiasi altra religione da questo punto di vista.
PLAYBOY: In che cosa crede lei?
BOWIE: Credo in me stesso, nella politica, nel sesso…
PLAYBOY: Visto che si mette al primo posto, si considera un pensatore originale?
BOWIE: No, nel modo più assoluto. Piuttosto sono un ladro di buon gusto. La sola arte che mi va di studiare è quella da cui posso portare via qualcosa. Ma penso che il mio plagio dia buoni frutti. Perchè un artista crea? Io la vedo così, se uno inventa qualcosa lo fa con la speranza che la gente usi la sua invenzione. E l’arte dovrebbe essere altrettanto pratica. L’arte può essre un riferimento politico, una forza sessuale, qualsiasi tipo di forza, ma si deve poterla usare. Che cosa diavolo vogliono gli artisti? Dei pezzi da museo? Per quanto mi riguarda, più vengo imitato, più mi sento lusingato. Ma certo sollevo molti scontenti, quando esprimo la mia ammirazione per altri artisti con frasi tipo: “si, lo userò” oppure: “Sì, l’ho preso da lui (o da lei)”. Mick Jagger, per esempio ha paura di entrare nella stessa stanza in cui ci sono io, se sta anche solo “pensando” una nuova idea. Sa benissimo che gliela porterei via subito.
PLAYBOY: A proposito è vero che Jagger una volta le disse che aveva in mente di affidare a Guy Pellaert la copertina dell’album dei Rolling Stones e che lei se lo accaparrò immediatamente per il suo Diamond Dogs, che uscì prima?
BOWIE: Mick è stato davvero stupido. Non avrebbe mai dovuto mostrarmi qualcosa di nuovo. Ero andato a trovarlo e la sua casa era piena di quadri di questo tipo. Mi chiese: “Che cosa ne pensi? “. Gli risposi che mi sembravano incredibili. E telefonai immediatamente a Pellaert. Nel nostro mestiere non si può che essere bastardi.
PLAYBOY: Ci sono altri artisti che le piacerebbe prendere?
BOWIE: Sì, volevo che Normann Rockwell mi facesse una copertina. E lo vorrei ancora. In origine, lo volevo per la copertina di Young Americans. Riuscii ad avere il suo numero di telefono e lo chiamai. Rispose la moglie e io dissi: “Salve, sono David Bowie eccetera”. Le chiesi se il marito poteva farmi una copertina. Lei, con voce tremula, da vecchia, fece: “Mi spiace, ma Normann ha bisogno di almeno sei mesi per i suoi ritratti”. Così dovetti rinunciarci.
PLAYBOY: Alcuni psichiatri definirebbero il suo comportamento “coercitivo”. Non la spaventa il fatto che nella sua famiglia ci sia un ramo di pazzia?
BOWIE: In effetti mio fratello Terry è ricoverato in un manicomio. Vorrei poter pensare che la pazzia dipende dal fatto che la nostra famiglia è costituita da geni, ma temo che non sia vero. Alcuni di loro, anzi molti, sono dei nessuno. Però la pazzia mi piace. Per esempio è molto simpatico sfoderarla nei cocktails. Tutti provano una certa simpatia per una famiglia di matti, tutti dicono: “Oh sì, anche la mia, famiglia è pazza”. Ma la mia lo è veramente, non si può scherzare su questo punto. La maggioranza sono pazzi, o sono già in manicomio o ci stanno andando o ne sono appena usciti.
PLAYBOY: Ma loro che pensano di lei?
BOWIE: Non lo so proprio. Non vedo nessuno di loro da anni. Mio padre è morto e credo che l’ultima volta che ho parlato con mia madre fosse due anni fa. Non li capisco, non sono più loro a dover capire me, ma viceversa.
PLAYBOY: Lei ha dichiarato più volte di credere nel fascismo. Eppure sostiene anche di voler diventare primo ministro d’Inghilterra: è forse un’altra sua manipolazione dei mass-media?
BOWIE: Mio Dio, ma tutto è manipolazione dei mass-media. Certo vorrei fare della politica e un giorno la farò senz’altro. Mi piacerebbe moltissimo essere primo ministro. Ma è anche vero che credo fermamente nel fascismo. Il solo modo che abbiamo per vivificare questa specie di liberalismo ristagnante è di accelerare l’avvento di una tirannia di destra che sia totalmente dittatoriale. La gente diventa molto più efficente se sottoposta a un regime… E io non sopporto la gente che perde tempo. La televisione, credo che non ci sia bisogno di dirlo, è la cosa più fascista che ci sia. Anche i divi del rock sono fascisti. E Hitler è stato uno dei primi divi del rock.
PLAYBOY: In che modo?
BOWIE: Ma ci pensi un attimo. Guardi i suoi film, il modo in cui si muoveva! Penso che fosse bravo quasi quanto Jagger. Era davvero sorprendente: non appena saliva sul palcoscenico, il pubblico impazziva. Buon Dio, non era un politico, era anche lui un artista dei mass-media. Usando insieme politica e teatro, ha creato un apparato in grado di dominare e controllare lo show per ben dodici anni. Non ce ne sarà un altro pari a lui: è riuscito a mettere in scena un intero paese. A me piacerebbe essere primo ministro, ma penso che prima dovrei cambiare il mio paese. Non voglio certo essere primo ministro del vecchio paese. Prima dovrei creare lo Stato in cui mi piaccia vivere. Sogno anche di potere comprare un giorno compagnie e stazioni televisive, di possederle e di controllarle.
PLAYBOY: In Rolling Stone lei dice che le piacerebbe usare la musica “per governare il mondo… in modo subliminale”. Ci dica qualcosa di più.
BOWIE: Penso che la pubblicità subliminale sia fantastica. Se non fosse stata proibita, sarebbe subito stata usata in politica. E io, in questo campo, sarei stato bravissimo. Immagini, per esempio, uno schermo vuoto che la gente possa fissare per un’ora e mezzo senza veder nulla: sono sicuro che alla fine uscirebbero con la convinzione di aver fatto un’esperienza incredibile. Naturalmente per Rolling Stone ho ricevuto una montagna di lettere di disapprovazione. Ma, ai suoi tempi, le ebbe anche Dalì, il quale era perfettamente conscio di quello che faceva con i suoi quadri. Si sarebbe forse dovuto costringerlo a dipingere dei vasi di fiori? Secondo me, quelli che vorrebbero che si dipingessero soltanto quadri comprensibili al proletariato sono completamente fuori strada. É come quando Hitler faceva togliere dai musei i quadri moderni. Non si deve aver paura dell’arte. Il rock’n’roll è soltanto rock’n’roll, ma la gente pensa che sia sacro. Certamente non si può negare che abbia un’influenza enorme sui ragazzini. Ma ormai i dischi sono una cosa del passato e chissà che cosa succederà in futuro.
PLAYBOY: Ci dica come vede il futuro della musica.
BOWIE: Verrà certamente incontro alla sensibilità dei lavoratori. Quest’idea è veramente eccitante. Si tratterà di suono come struttura, piuttosto che di suono come musica. Il gruppo che preferisco è una banda tedesca che si chiama Kraftwerk e che suona una musica di rumori per “aumentare la produttività”.
PLAYBOY: Rinuncio a capire! Parliamo invece di film. Come mai ha deciso di fare ‘The Man Who Fell To Earth’?
BOWIE: Quando ho letto il copione, sono subito stato affascinato dal personaggio di Newton, che ha molto in comune con me. Aveva paura delle macchine, ma amava la velocità; fisicamente era emaciato, insomma c’erano molte caratteristiche comuni. Un solo problema: non mi piaceva il copione.
PLAYBOY: E allora?
BOWIE: Nicolas Roeg, il regista, venne a casa mia qualche settimana dopo avermi mandato il copione. Arrivò puntuale e io non c’ero. Dopo otto ore circa, mi ricordai dell’appuntamento e così arrivai con nove ore di ritardo, sicuro che lui se ne fosse andato. Invece era seduto in cucina. Se n’era stato lì tutte quelle ore, senza muoversi mai dalla cucina. Io ero davvero imbarazzato e pensai che lo sarei stato per sempre. Lui mi chiese che cosa pensavo del copione e io risposi che lo trovavo un po’ sdolcinato. Lui ci rimase malissimo. Poi cominciò a parlare e fui subito convinto di trovarmi di fronte a un genio. Devo però confessare che ancora adesso non capisco tutte le sfumature che Roeg ha messo nel film il suo livello artistico è troppo superiore al mio.
Bellissima intervista.peccato non sia completa..avrei voluto leggerla fino alla fine.
SALUTI E GRAZIE PER IL VOSTRO IMMENSO LAVORO
Grazie per la segnalazione Manuela, non ci eravamo accorti! Cercheremo di rimediare al più presto 🙂