Quotato in Borsa, primo artista su Internet. Dopo trent’anni di trionfi è come il rock’n’roll: continua a rimanere giovane mentre gli altri invecchiano.
L’uomo che cadde sulla terra è uno dei pochi a potersi permettere i calzini corti o i tubolari da ginnastica con il mocassino. David Bowie, stella numero 2083 della hollywoodiana Walk of Fame, invidiato marito della top model lman, uomo che guarda la musica con occhi diversi (non solo perché un occhio è blu e l’altro marrone), primo artista ad aver trasformato le sue canzoni in obbligazioni (che nel solo primo giorno d’emissione gli hanno fruttato 88 miliardi), prima rockstar ad aver presentato un brano su lnternet (46 mila contatti in quattro giorni, ai limiti delle possibilità tecniche), porta con innata eleganza i suoi primi cinquant’anni. Anche quando indossa un normale maglione a collo alto sui jeans 501, con pizzetto sbarazzino, capelli sparati giallo arancione e, ultimo vezzo punk, orecchino al lobo sinistro. Perché lui le mode le trascende. Come nel 1977, quando, in piena esplosione dei nuovi suoni, la sua casa discografica coniò io slogan: “C’è la New Wave. C’è la Old Wave. E c’è David Bowie”. Camaleontico, incapace di rimanere fermo per più di un disco sugli stessi suoni, portavoce di quel glam rock che negli anni Settanta fu la moda più seguita dagli stilisti della musica, Bowie è l’ultima vera rockstar in un cielo ormai abitato da stelle cadenti. Lui e Mick Jagger, e pettegolezzo vuole che Bianca Jagger decise di lasciare il marito proprio dopo averlo trovato a letto con Bowie. A maggio il Duca, come lo si chiamava un tempo, avvierà l’ennesimo tour mondiale, Italia inclusa.
Come vanno le sue azioni?
Bene, grazie. Un’idea di farmi quotare in Borsa è dei miei avvocati. I Bowie Bonds mi consentono di rimanere padrone del mio catalogo, senza essere costretto a vendere i diritti, come sono costretti a fare molti miei colleghi.
Non è stata, quindi, una mossa dettata dalla vanità?
No, è stata una mossa dettata dal denaro. Sono un finto vanitoso, se mi si passa la definizione. La vanità è stata per molti anni una sensazione sconosciuta. Ho avuto seri problemi, in passato, tanto dal punto di vista estetico che da quello caratteriale. Contrariamente a quello che molti possono pensare, non mi sono mai piaciuto, non ho mai avuto molta stima in me. Sono stato un pessimo padre, per esempio. Mio figlio Zowie è cresciuto senza di me. Per fortuna sono riuscito a recuperare il rapporto, ma l’errore rimane. Riguardo l’autostima e la vanità, ora le cose vanno meglio, molto meglio. Mi trovo accettabile.
Le è mai capitato di farsi rubare la scena dai suoi personaggi, da Ziggy Stardust, per esempio?
Molte volte. Mi sono spesso identificato con le mie creature, fino a farmi fagocitare. La tentazione di identificarsi con i propri personaggi è sempre fortissima negli artisti. E questo non ha fatto altro che aumentare i miei problemi. Quella dell’artista che ha attraversato le epoche cambiando personaggio sempre con grande sicurezza è l’immagine che traspare all’esterno. La realtà è leggermente diversa. Io sono un insicuro e ho cercato di nascondere le mie incertezze dietro il paravento dell’arte. Ma l’arte non è la vita. Se nota, c’è stato un periodo in cui incidevo anche due dischi l’anno. Dietro quella foga c’era una motivazione che non era la voglia di diventare famoso.
Erano gli anni Settanta, il decennio in cui sì è conquistato una fama planetaria per i suoi dischi, ma anche per la presenza scenica, per l’abilità di possedere il palcoscenico. Un “rock and roll animal”, per dirla alla Lou Reed.
Guardi, sarei tentato di proseguire con una battuta. Si dice spesso che chi ha davvero vissuto gli anni Settanta non li può ricordare perché era troppo fuori di testa. Io, i Settanta li ho vissuti allo stesso modo. Ricordo che leggevo articoli sui danni devastanti che (e anfetamine, la cocaina e le droghe in genere potevano produrre sul cervello. Allora si usava indicare la quantità massima, la soglia oltre la quale i danni sarebbero stati permanenti. Io quella soglia l’avevo superata da un pezzo ……
Torniamo alla sua risposta precedente. Lei ha detto che la sua frenesia artistica non era dettata dalla voglia affermazione.
La fama non è mai stata un’ossessione. C’è stato anche un periodo, negli anni Ottanta, in cui mi infastidiva pensare che i miei dischi entravano nelle stesse case in cui entravano i dischi di artisti molto commerciali. Mi chiedevo come fosse possibile che io piacessi a persone alle quali piacevano anche i Bee Gees o Phil Collins. Se il successo mi dovesse abbandonare, pazienza. Non mi sono mai considerato un songwriter, semmai un esploratore. Mi piace avventurarmi in terre nuove e odio i dischi cosiddetti facili. Tra il rischio di andare oltre confine e la sicurezza di rimanere nella forma canzone, scelgo l’avventura: Ho scritto canzoni nella forma canonica, in passato, ma con il trascorrere degli anni mi sono indirizzato sempre più di frequente altrove…
È per questo motivo che nei suoi tour lo spazio destinato ai vecchi successi è sempre cosi limitato?
Mi dice che senso avrebbe andare in giro per il mondo a cantare le cose che ho scritto trent’anni fa? Non voglio trasformarmi in un juke box semovente. Il compito dell’artista è quello di creare in continuazione, non di vivere di rendita.
Il suo ultimo disco, Earthling, è l’ennesimo album di confine, dove si confronta la musica jungle e i suoni di tendenza.
Non sono mai stato un purista del suono, qualsiasi fosse il genere con cui mi cimentavo. Io amo le commistioni, gli incroci, gli innesti. La prima volta che andai in America colpi la musica nera: il soul, il rhythm and blues, il suono di Philadelfia. Tornato a casa, rivisitai tutto con sensibilità europea. La stessa cosa accadde qualche tempo dopo, quando, dopo un viaggio a Dusseldorf, mi innamorai della musica cosmica e dell’elettronica tedesca: Kraftwerk, Tangerine Dream … Oggi vanno di moda la dance, il trip hop, la jungle. Mi piace confrontarmi con quelle espressioni che sintetizzano la realtà contemporanea. Il rock, con il cinema, è la forma d’arte per eccellenza del ventesimo secolo. Io interiorizzo i suoni e poi li espello a modo mio. Questione di sensibilità.
Ha appena compiuto cinquant’anni. È cambiato il suo approccio alla musica e all’arte in generale?
Ai cinquant’anni penso solo quando qualcuno mi ricorda che li ho. Vivo senza guardarmi indietro e senza futuro. Sono felice di aver constatato che la creatività non ha un tempo, una scadenza. La paura dello scrittore è di svegliarsi una mattina e scoprire che non sa più scrivere, quella dell’artista è di rendersi conto che l’età gli impedisce di creare. Mi piace ripetere che Picasso ha realizzato capolavori fino alla fine e che Burroughs è ancora lucido come quando aveva vent’anni. Una volta realizzato che la mente non si appanna, che l’immaginazione rimane forte e che la voglia di inventare non si affievolisce affatto, passa anche la paura di invecchiare.
C’è un brano dell’ultimo album, Dead Man Walking, che ha a che vedere con la paura di invecchiare.
L’ho scritto dopo aver assistito a una bellissima scena, durante un concerto di Neil Young. A un certo punto, i musicisti dei suo gruppo, i Crazy Horse, hanno cominciato a ballare abbracciati, come in un cerchio tribale, molto lentamente. E a me sembrava che facessero così per riprendere i loro sogni, per ritrovare la giovinezza, per lasciar fuggire l’energia. E allora ho scritto Dead Man Walking, sorta di omaggio al rock and roll che continua a rimanere giovane anche se noi tutti continuiamo a invecchiare.