MTV intervista, luglio 2002: l’intervista che David Bowie ha rilasciato a Lucia Nicolai nella sua permaneza a Montecatini Terme, durante la data di Lucca dell’Heathen Tour.
Non c’è davvero bisogno di presentare Mr. Bowie, icona per eccellenza di tre decadi di rock’n’roll. Dagli esordi ai margini del mod di fine anni ’60 all’esplosione di costumi e colori del glam dei ’70 fino ad arrivare al croon più classico e operatico del nuovo millennio – passando attraverso il soul, il funk, l’elettronica più spinta e il drum’n’bass – in più di trent’anni di musica, il Duca Bianco ha scandito la vita di molteplici generazioni di fan che non smettono di essere ammaliati, ancora oggi, dal suo potere di incantatore. Quest’anno, trentesimo anniversario della sua ‘creatura’ più affascinante, Ziggy Stardust, il grande David ritorna con un album che respira vera aria di classico, “Heathen”, una raccolta di 12 tracce (di cui 3 cover) frutto del suo periodo newyorkese e della seconda paternità (la piccola Alexandra, nata dal suo matrimonio con la modella Iman, compie due anni il prossimo agosto). Un disco pieno di temi eterni come l’amore e la morte vissuti nel loro aspetto più trascendentale e, in quanto tali, ancora più affermativi della vita. Lo abbiamo incontrato – con grande batticuore – il giorno dopo il concerto che ha tenuto a Lucca, nella sua unica data italiana. Avevamo di fronte un pezzo di storia del rock: un’esperienza che non possiamo non condividere con voi…
Una volta cantavi I’m Afraid of Americans, adesso hai deciso di lasciare la Gran Bretagna per vivere “nel paese il cui principale prodotto nazionale (gli Usa, ndr) è la fama”…
Penso che avrei dovuto riscrivere il titolo in “I’m Afraid of Certain Americans”, non di tutti in generale. Nella mia band ci sono sei americani che amo moltissimo e con cui lavoro da sempre e naturalmente ho moltissimi amici a New York che rispetto profondamente. Quando ho scritto quella canzone, era metà anni Novanta ed era motivata dal franchising dell’immagine americana ovunque. Sono arrivato a Lucca e la prima cosa che ho visto è il McDonald’s. Appena abbiamo passato il cartello ‘Benvenuti a Lucca’ la prima cosa che ho visto è stata McDonald’s e penso che sia lo schiacciamento di culture individuali a costituire fonte di grossa preoccupazione.
Come New York ha influenzato il modo di scrivere il tuo nuovo materiale, considerati anche i tragici eventi dell’11 settembre?
New York in generale ha influenzato il mio modo di scrivere, tremendamente. Quello e l’impatto di essere padre per la seconda volta, penso. La mia situazione domestica è gran parte di ciò che ho scritto nel nuovo album. Cosa significa essere un padre adesso, in questo momento preciso. C’è un senso di tensione a New York che uno scrittore in realtà apprezza molto. C’è una frizione fra l’atteggiamento del tutto-e-ora di tutti gli abitanti di New York e l’idea di contemplazione che invece sembra essere stata completamente messa da parte. Una vita d’azione contrapposta a una vita di contemplazione. Io sono attratto da entrambe per cui non mi dispiace un po’ di frizione. Per uno scrittore, aiuta molto. Penso che New York sia un fantastico posto in cui scrivere. È la somma di quello che sentiamo in occidente, penso. Forse è fin troppo concentrata in quelli che sono i problemi nella società occidentale. In molti modi, però, è un posto in cui è molto facile vivere. Permette un certo anonimato che alla mia famiglia piace molto. Mi piace poter camminare per la città senza essere disturbato. Ma, come ho detto, la velocità della vita è molto intensa laggiù per cui devi continuare a equilibrare un aspetto con l’altro.
Un equilibrio che viene fuori molto nel tuo nuovo album: temi come amore e morte sono prominenti, ma non c’è mai un accenno al dolore e alla sofferenza nei testi, che invece assumono una connotazione molto spirituale. Ma poi, in contrasto c’è quel titolo, “Heathen” (pagano, ndt)
“Heathen” in realtà è stato un titolo arbitrario, in origine. Era il titolo dell’ultima canzone sul disco, che – ironicamente – era però una delle prime a essere stata scritta. E quando ho finito di scriverla ho cominciato a usare la parola ‘heathen’ come titolo di lavorazione dell’album. Alla fine è rimasto perché quando ho finito di scrivere e di registrare il disco, ‘heathen’ sembrava essere un buon contenitore per tutte le cose di cui ho scritto nell’album: la mancanza di comprensione rispetto a quello che può essere il nostro posto sul pianeta o nell’universo, il chiedersi in maniera agnostica se c’è un dio o no, se ci sono piani per noi o no, se si riesce a dar sfogo a tutto questo dolore, stress e ansia. Domande usuali, domande non molto diverse, le stesse vecchie domande di sempre, che ho cercato di porre in un modo molto interessante. E il dolore non è più una cosa mia. Scrivo, o meglio ho scritto molto di questo album, dalla prospettiva di avere una figlioletta e di cosa vuol dire dover crescere un bambino in questo mondo. Molte delle preoccupazioni sono per mia figlia e non per me personalmente. Sembrano scomparire quando hai un figlio, la preoccupazione è per lui e non per te. Non è così solipsistico come avrebbe potuto essere in passato, per cui riguarda la ricerca di una serie di possibilità per un bambino. …
…il che ti ha portato a pubblicare un album classico, proprio come dichiara l’adesivo sulla copertina.
Sono assolutamente stra-felice che le persone amino così tanto questo disco, sai? Perché non si sa mai: fai quello che sei capace di fare e poi ti siedi a guardare se hai ancora un pubblico. Non è una cosa a colpo sicuro, a meno che ovviamente non fai singoli commerciali, del genere che si produce in fabbrica, sai? Ma il tipo di cose che scrivo io sono completamente personali e spero che ci sia qualcuno là fuori che senta le stesse cose che sento io o che provi dell’empatia e si connetta con ciò che faccio. Per qualche ragione, questa volta ha veramente ‘cliccato’ con la gente. Sono abbastanza sorpreso e molto molto felice che stia andando così bene. È bellissimo.
E per questo ‘classic’ hai lavorato di nuovo con Tony Visconti, tuo produttore storico. Come è stato ritornare alle radici? L’alchimia che c’era fra voi due è rimasta intatta o addirittura si è evoluta verso livelli superiori?
Non c’è alcuna differenza nel modo in cui lavoriamo. Il lavoro che abbiamo fatto negli anni 70-80 era molto vario: andava da album soul come “Young Americans” a atmosfere più cupe e lugubri con “Low” a cose uptempo e hard rock come “Scary Monsters”. Penso che quello che non volevamo fare era duplicare ciò che avevamo fatto in passato, per cui toccava a me riuscire a scrivere delle canzoni molto forti prima di entrare in studio. E spero di averlo fatto. Poi avremmo lavorato su quella situazione in modo da non appoggiarci troppo al passato. L’alchimia fra noi è esattamente la stessa di prima. Lui è incredibilmente incoraggiante, ti supporta molto. Se voglio suonare uno strumento, me lo fa fare e non chiama qualcun altro, poi dice ‘David, no, fermati, ora facciamo venire un musicista vero’. Non mi sento come se qualcuno mi giudicasse mentre sto facendo musica, che è il più grande supporto che una persona ti può dare. E naturalmente è un meraviglioso musicista, un fantastico compositore d’archi. È così bello poter lavorare con lui come arrangiatore degli archi. È unico.
Il risultato è un sound molto intrigante accompagnato da un artwork altrettanto intrigante: le parole sono schermate da una riga, le facce cancellate, i dipinti squarciati, i libri con le pagine strappate. Poi alla fine ti si vede che scendi da una scala come un deus ex-machina: un po’ come se ci fosse la negazione e l’affermazione di tutte le cose in quel libretto…
Sì, penso che stavamo pensando ad alcuni dei significati sottintesi di “Heathen”: un pagano è spesso percepito come un barbaro, un filisteo, un iconoclasta, per cui volevamo indicare quel tipo di sentimenti nell’artwork. Qualcuno che distrugge mentre vive, era il centro della questione, per cui volevamo negare le parole mettendoci una linea sopra. La distruzione dell’arte è sempre stata una cosa strana. Socialmente è un atto molto individualista ed egoista: fa così male vedere qualcuno che butta della vernice su un quadro o che passa la lama di un coltello su una tela. È un altro tipo di negazione. Per cui volevo che tutti quegli elementi ci fossero. Come il pagano che è qualcuno che distrugge tutto ciò che pensiamo vero. Uno si chiede cosa sia rimasto di vero – e ora sì che siamo postmoderni! – ma niente è vero e niente di originale può riaccadere. Per cui è qualcosa di piuttosto triste. Non sono sicuro di volerci credere, ma devo comunque considerarla come una possibile situazione.
Quello che è vero, però, è che al tuo concerto di Lucca hai mandato tutti in visibilio, da “Life On Mars” a “Ziggy Stardust”. Ma tu come hai vissuto, dall’alto del palco, quell’esperienza?
Adesso sono pienamente soddisfatto di essere un interprete delle mie canzoni, non cerco di fare teatro: come avrai potuto vedere con i tuoi occhi è un concerto molto diretto. Non ci sono personaggi strani o robe del genere. In questo momento guardo alle mie canzoni come delle semplici posizioni da adottare sul palco e interpreto e canto le parole come meglio posso. Per cui per me adesso sono solo canzoni, e quelle che ho scelto per il live sono molto divertenti da fare. Cantarle mi dà piacere e penso che in questo momento è quello che conta per me. Non sono interessato a fare niente di teatrale. Sono felice di interpretare la mia musica e basta. È divertente, e poi la mia band è fantastica: appoggia qualsiasi cosa faccia. È una vera gioia, una meraviglia.
Mentre ti stavi esibendo hai raccontato molti aneddoti riguardanti visite precedenti a Lucca. C’è alcuna verità in tutto questo?
No! Facevo solo un po’ di scena! Mi aveva colpito molto il fatto che ci fossero così tante persone alle finestre delle case circostanti e probabilmente odiano il rock’n’roll. Era così ironico che fossero costretti ad ascoltare un festival di musica per tre giorni consecutivi! Così mi sono inventato dei nomi di persone per le quali andavo a passeggiare il cane….come si chiamava? Giancarlo, vero? (ride)
Recentemente hai diretto il Meltdown Festival: come si è rivelata quell’esperienza per te? E come hai deciso di includere artisti come Fisherspooner nella line-up per esempio?
I Fisher Spooner li abbiamo rintracciati per telefono: ho chiesto alla mia segretaria di rintracciarli, in qualunque parte del mondo fossero. È stato molto difficile perché io stavo gestendo il tutto da New York, dove stavo ancora facendo le prove con la band e stavo mettendo gli ultimi tocchi all’artwork di “Heathen”, per cui gran parte del lavoro è stata fatta via e-mail e telefono. Il che ha reso tutto molto più arduo. Inoltre alcuni degli artisti che volevo non erano più disponibili perché erano ritornati in studio e in alcuni casi le band si erano sciolte. Ma sarebbe stato bellissimo poter avere nel cast un gruppo come i Grandaddy, a cui sarebbe piaciuto molto esserci, ma erano già in studio a incidere il nuovo album per cui non avevano previsto performance quest’estate. Un vero peccato! Poi avevo chiesto ad altri artisti di fare qualcosa più sperimentale del solito: ci hanno pensato un po’ poi sono ritornati dicendo di no. Forse erano un po’ spaventati dal farlo. Ma in fin dei conti penso di aver fatto un buon lavoro: sono riuscito a ottenere un ‘sì’ dal 60-70% dei gruppi che volevo in origine sul palco. Non male, no? Ma se dovessi mai rifare qualcosa del genere, penso che vorrei avere un periodo più lungo a disposizione per organizzarlo e vorrei anche essere sul posto. È stato faticoso farlo sulla lunga distanza, da New York a Londra. Ma nel complesso siamo rimasti molto colpiti dal successo che ha riscosso: è il festival che ha venduto più velocemente dell’estate e penso anche quello che ha incassato di più finora. Ci ha decisamente ripagato di tutti gli sforzi fatti.
Visto che proprio tu, durante il concerto, ci hai fatto andare indietro e avanti nel tempo così tante volte, vorremmo fare lo stesso con te, ora…ci piacerebbe parlare con te di un’era in cui hai giocato un ruolo chiave, il glam. Che cosa ti ha attratto verso quel movimento?
Non era un vero movimento a quei tempi. Eravamo io, i Roxy Music e Marc Bolan. Tutto qui, penso. Tutte le altre band che vennero dopo, erano sì molto carine, ma in un certo modo ci seguivano. Era una manifestazione del bisogno di porre un taglio agli anni ’60, ecco cosa penso che fosse. Non ne potevamo più dell’idea di falsa integrità per la quale se indossavi i blue jeans eri genuino e quello che cantavi veniva dal cuore. Erano tutte schifezze. Assolutamente. Noi volevamo distanziarci un po’ da quei temi. Penso che fosse in un certo modo la nascita dell’ironia nel rock, nel senso che ammettevamo di sapere da dove venisse il rock, e di conoscerne il vocabolario, il linguaggio, ma volevamo stabilire un nuovo modo di guardare al rock e soprattutto volevamo usarlo in un modo nuovo, volevamo sviluppare un nuovo vocabolario che illustrasse gli anni ’70. E gli anni ’70 per noi erano l’inizio del 21° secolo. Pensavamo che il 20° secolo fosse finito per lasciare il posto al pluralismo, a un’era duplice dove nulla era più vero. Penso che fosse l’inizio del rock postmoderno…con un mucchio di make-up! (ride)
Hai anche rivestito un ruolo importante nel rapporto controverso fra musica e sesso, sei stato il primo a guardare alla ribellione e al rock’n’roll attraverso i filtri del genere sessuale. Ma a quei tempi, l’uso della sessualità come mezzo per provocare, faceva parte di un progetto più grande in cui stavi vivendo?
Penso che quello che facevo fosse una piccola parte. Penso che l’idea di neutralizzare il super-macho…voglio dire, il rock’n’roll è sempre stato sessista e misogino, e continua ad esserlo. Di tutte le forme d’arte è la più misogina, con tutti quei ragazzi che cercano di sedurre le ragazze. Che noia! Il glam e il rock post-moderno non sarebbe stato capace di abbracciare così tanti diversi atteggiamenti se si fosse concentrato su un solo genere sessuale. Doveva essere aperto e enigmatico. Non penso che nessuna della sessualità di quel rock particolare fosse estremamente diretta, né per me né per i Roxy. Si trattava più di ‘rappresentare un’identità sessuale’ piuttosto che di ‘essere un’identità sessuale’, per cui metteva sul piatto tante domande quante risposte. E questo penso sia la cosa più soddisfacente nell’arte, in qualsiasi forma d’arte. Credo che qualsiasi pezzo di arte che dica come pensare sia qualcosa di cui non fidarsi. È molto importante non dire alle persone ‘questa è la verità’. Tutto quello che è didattico deve scomparire.
Sei stato uno dei primi artisti ad aver creduto nel potere di Internet, mezzo che – ultimamente – si è rivelato molto controverso nell’industria discografica. Come è iniziato tutto? Come ti sei ritrovato così attratto dal web?
In realtà usavamo già da un pezzo i computer e le prime forme di posta elettronica: penso che fossimo il primo gruppo, nel lontano 1983, a usare i computer in tour e a inviarci cose avanti e indietro per il globo. Per cui queste attrezzature sono rimaste in ufficio per così tanto tempo che alla fine vi sono rimasto affezionato…! No, in realtà è successo tutto quando hanno cominciato a produrre programmi di arte nei primi anni Novanta, quelli che permettevano di giocare con la grafica e di creare interattività. Ecco, è allora che il mio interesse è stato pungolato e piano piano mi sono abituato all’idea. Non era tanto internet che mi affascinava quanto i programmi tipo Photoshop e tutti quelli con cui potevo rimaneggiare quello che avevo disegnato, combinare i dipinti con le foto e giocare con l’artwork. Ma è arrivato insieme a internet perché a causa di quei programmi ho cominciato a navigare e a vedere quello che succedeva in giro, così ho cominciato a pensare che sarebbe stato piuttosto cool mettere un sito per i miei fan. Sì, tutto è cominciato negli anni Novanta.