Hobo – Radiouno. Intervista esclusiva di David Bowie, fatta durante la data italiana di Lucca dell’ Heathen Tour.
Trasmessa in cinque puntate a partire dal 15 settembre 2002. La trasmissione e l’intervista è stata curata da Massimo Cotto.
Questa è una settimana interamente dedicata a David Bowie; abbiamo realizzato con lui una intervista esclusiva che è una sorta di escursus, un lungo viaggio attraverso suoni, invenzioni, travestimenti e rock’n’roll. Questo è dunque un incontro ravvicinato con il duca bianco, l’uomo che non possiamo dire abbia inventato il glam rock, ma che ha più contribuito a diffonderne il verbo nel mondo, l’uomo che cadde sulla terra, tanto per continuare a giocare con i titoli dei suoi dischi, l’uomo che alla guida dei Ragni di Marte ha saputo tessere la tela di un rock avvolgente, spesso straordinario, l’uomo che più di tutto, io credo, con i suoi occhi di diverso colore guarda il mondo alla sua maniera.
Heathen è un grande disco, a volte drammatico, denso di rabbia e insoddisfazione per quello che succede nel mondo. A volte mi sembra di avvertire il senso di tragedia imminente che era proprio di Jacques Brel.
Un senso di tragedia… credo sia giusto. Credo derivi dal fatto di essere diventato padre per la seconda volta e dall’avere un figlia molto giovane, di due anni. Penso che il senso a cui facevi riferimento nasca dalla frustrazione, persino da qualcosa di più, dalla rabbia di vedere un mondo alla deriva che lascia pochi respiri all’ottimismo. Questo mi spaventa. Suppongo che ogni genitore provi le medesime sensazioni, ma non riesco a evitare di riformulare la stessa domanda: “Perché ho messo al mondo, in questo orribile mondo, un figlio?”. Sono sicuro che anche i miei genitori hanno pensato la stessa cosa quando hanno messo al mondo me, ma credo che i tempi che stiamo vivendo siano più ansiosi e stressanti. Sono molto preoccupato, mi domando che cosa resterà per lei quando sarà cresciuta.
Viviamo tempi difficili, stiamo forse entrando nell’apocalisse, eppure ,ecco un altro aspetto interessante del disco, in questo caos esterno, è la melodia interna il motore delle canzoni.
Si, se ho puntato tanto sulla melodia è perché in mezzo al caos si cerca sempre la chiave, l’inclinazione naturale per scoprire il senso della struttura e vincere la rabbia e il risentimento che dava voce alle canzoni. Ero alla ricerca di qualcosa che desse il senso dell’insieme e il simbolo era la melodia, forte e diretta… forse in modo ingenuo ho cercato la verità, ma è sempre più difficile distinguerla; puoi ragionare in termini assoluti, ma alla fine della giornata ti scopri a dire… beh, forse in quel caso è solo un problema di sopravvivenza che mi fa andare avanti. Se questo è il senso della nostra giornata, è qualcosa su cui possiamo costruire? Non credo, se sopravvivere è il credo, non c’è religione sulla terra. Questa è la mia risposta. Camminiamo nel vacuo, in questo grande buco che urla “non c’è ragione nel vivere”… questo è l’aspetto più terrificante. Per andare avanti dobbiamo credere, fingere di essere in evoluzione, in progresso, ma sappiamo bene che non è così. Siamo soli, in questo orrendo, ellittico, fisso vivere dove ripetiamo all’infinito gli stessi comportamenti animaleschi dettati dall’esigenza di sopravvivere. Ucciderci a vicenda, distruggere il pianeta dove viviamo… bizzarro e orribile. Ti sembro negativo? No, i miei pensieri non ti vietano di essere più ottimista, a volte finisci per sentirti come Sisifo che spingeva la pietra, fin sulla montagna solo per vederla rotolare a valle. Ma dobbiamo comunque credere di arrivare in cima. Sono come tutti gli altri esseri umani, convinto che, se lavoro su di me, riuscendo a migliorare la mia vita e quella degli altri, il mio piccolo mondo metterà in circolo altri sforzi, altra energia. Spero sia così ma non ne sono troppo sicuro.
Pensi che sia ancora possibile essere eroi anche solo per un giorno?
Ci credo, certo, ci credo nel modo in cui originariamente era concepita la canzone, che parlava di due ragazzi che volevano ottenere qualche conquista importante all’interno della loro relazione, non nel mondo intero, ma su scala ridotta a loro due. Credo non sia lecito aspettarci qualcosa di più grande di questo; salvare il mondo è la religione secolare, il livello più alto della sensibilità terrena, ma è un risultato troppo improbabile da raggiungere. Salvare una relazione è già un buon inizio. Ci sono storie che raccontano gli uomini che ambivano a salvare il mondo, ma non sono stati capaci di tenere unita la loro famiglia e il primo comandamento è tenersi ancorati alle radici, al primo livello di salvezza e redenzione che contempla te stesso, la tua famiglia, gli amici, il vicinato e sapersi rapportare a ogni nuova situazione. Se andasse tutto a questo modo, i ribelli si eliminerebbero tra loro e la società rimarrebbe sana.
Quando hai cantato “Heroes” a New York, per i vigili del fuoco dell’11 settembre, l’eccitazione e la commozione era visibile. Le parole di una canzone possono assumere significati diversi a distanza di anni.
Si, si… naturalmente in America tutti si sono aggrappati al verso che diceva “we can be heroes just for one day”… possiamo essere eroi anche solo per un giorno… poco importa che uno dei protagonisti della canzone sia un alcolizzato e l’altro una persona con parecchi problemi; importa solo quel verso “we can be heroes just for one day”. Lo stesso accadde per Springsteen, la sua Born in the U.S.A. è stata infilata in ogni contesto patriottico, ma, se davvero ascolti il testo, capirai che quella è la canzone meno patriottica che Springsteen abbia mai scritto. Volevano che aprissi il concerto con “Heroes”, ma io non ho voluto. Pensavo che il contesto richiedesse un approccio più complesso di quel semplicistico verso di due eroi, così ho detto che avrei accettato di aprire la serata solo se, come prima canzone, potevo scegliere “America” di Paul Simon, che per me conteneva alla perfezione quel senso di ansietà nascosta nella bellezza, che era l’epitome di un momento storico. Due ragazzi alla ricerca dell’America che non sapevano che non sapevano che cosa avrebbero trovato e che vivevano quell’incertezza con un pizzico di apprensione. Questo era il modo in cui New York pensava in quei giorni, almeno secondo me… non certo con eroismo, manie di grandezza, ma con paura, Avevano bisogno di quegli ingredienti, ma non potevano essere l’intero pasto. Non bisognava chiedere se si poteva essere eroi per un giorno, ma dove stavamo andando.
Hai sempre cercato di reinventarti, attingendo da campi diversi, Burroughs, Picasso e altri artisti… il tuo approccio alla musica è cambiato negli anni, indipendentemente dagli stili?
Questo è un aspetto interessante. A mano a mano che invecchio, aumenta l’autoesplorazione , l’analisi del mio passato, non tanto come persona, non amo guardarmi indietro troppo spesso, ma come artista. E’ necessario quando vado in tour interrogarmi sulle vecchie canzoni e fare il punto su ciò che sono stato, chiedermi “ok, che cosa ho fatto di rilevante in quel periodo, ha ancora senso rifarle oggi continuando ad essere credibile, vero?”… anche se il termine vero farei bene a non usarlo dopo quello che ho detto prima… “posso rileggere il mio passato con integrità?”. Quando attraverso questo percorso, noto che ci sono dei fili rossi, delle tematiche comuni a tutto il mio cammino, fin dagli esordi e molte di esse hanno a che vedere con l’isolamento, l’ansietà, la domanda opprimente del nostro ruolo nell’universo, l’esistenza di forme intelligenti nello spazio. I temi sono gli stessi da quarant’anni, l’approccio è cambiato frequentemente perché, come ogni artista, ho cercato di chiedermi la stessa domanda, di farmi la stessa domanda da prospettive differenti. L’immagine che mi piace è del cacciatore che cerca di stanare la preda e coglierla di sorpresa… così faccio io con le domande che rincorro da sempre. So che è stupido illudersi di trovare una risposta in quanto il senso dell’esistenza è inspiegabile, ma seguito a porle invecchiando aumenta l’intensità della richiesta. Perché? Cosa? Dove? Quando? Come? La richiesta diventa sempre più insistente come un suono di tamburo e durerà fino a quando appoggerai la tua testa sul cuscino per l’ultima volta… dopo quel viaggio scoprirai tutto. Gli stili cambiano e così le cosiddette reinvenzioni non sono altro che strumenti per aprire le stesse porte.
Il rock probabilmente ha perso gran parte del suo significato. Che cosa ha rappresentato e che cosa rappresenta per te?
Penso che sia diventato una sorta di agente, penso di essere ora nella situazione di chi vuole creare canzoni e fare concerti anche se il pubblico dovesse rivolgersi altrove, come è capitato molte volte nella mia carriera. Allo stato attuale sembra che la gente mi segua, ma, se anche non fosse, esprimermi è una necessità… dunque non smetterei mai di cantare, nemmeno se qualcuno mi pagasse per ritirarmi. E’ una droga, soprattutto quando sono a casa, circondato dai miei strumenti, dal mio ambiente naturale. Suono ogni giorno, ogni giorno scrivo sul mio notes, perché i testi continuo a scriverli a mano, butto giù idee…la musica è nel mio sangue. Agli esordi, trent’anni fa, avrei reagito diversamente e cercato con maggior forza un pubblico; oggi invece scrivo perché non posso farne a meno, anche se il pubblico non dovesse più esserci. La musica ha la medesima importanza della mia famiglia, vorrei dire che la mia famiglia viene prima, ma non è così. Arrivano insieme, sono loro, indissolubili, la mia vita.
Torniamo indietro alla domanda di prima. Perché gli attori possono cambiare di abito in ogni film ei musicisti non possono passare da un genere all’altro, disco dopo disco, senza sorprendere la gente?
Gli anni settanta hanno introdotto una nuova concezione del rock, non solo grazie a me, ma a gruppi come i Roxy Music, che sono stati terribilmente importanti nello sviluppare un nuovo tipo di pluralismo, di dualità nel modo in cui ci proponevamo, nella musica che proponevamo. Al tempo stesso, introducendo l’ironia, prendevamo le distanze dalla seriosità di certe degenerazioni stilistiche. Se oggi il rock’n’roll ha una storia, è perché noi abbiamo contribuito a crearla, anche abusandone. E, se mi concedi un pizzico di presunzione, in noi che facevamo base a Londra, c’era la consapevolezza di lavorare una forma di art-rock postmoderna. Il rock non sarebbe più stato lo stesso dopo di noi, ma non sono certo che il rock fosse disposto a veder sparire la figura di un eroe misogino che parlava a nome di una generazione, che si faceva guida e cantava la verità… ma io non volevo lasciarmi imprigionare in quell’unico ruolo. Non ero preparato a vendere me stesso come il portavoce della verità assoluta; la gente ancora oggi vuole che l’artista lasci cadere perle di saggezza e attinga da una realtà particolare da quale si possa attingere. E’ difficile per il pubblico rock credere che un artista che si cambia pantaloni in ogni disco sia serio e parli con il cuore, per quanto seri siano i suoi pantaloni.
Ziggy Stardust ha appena compiuto trent’anni. Quando pensi a lui, lo fai come a uno dei tuoi figli o come a una parte di te?
La sua vita è stata breve, diciotto mesi in tutto, di cui dodici in tour. Mi sorprende che abbia ancora un seguito e che sia ancora vivo nelle menti di chi l’ha conosciuto. Forse è diventato popolare in quanto svolta nel rock, con l’introduzione di un nuovo vocabolario, di una differente gestualità. Eravamo orgogliosi di lui ed eccitati dal nostro atteggiamento… noi che ci sentivamo gli inventori del glam e i coniatori di una nuova moneta. In questo senso Ziggy Stardust è stata una pietra miliare. Quando penso a lui lo faccio con affetto, ma non posso farlo troppo a lungo… un battito di ciglia, un minuto o due.
Una volta hai dichiarato di aver scoperto Bob Dylan e John Lee Hooker nello stesso giorno. Hai scoperto qualche musicista di recente e, se sì, hai reagito allo stesso modo o la tua maniera di sentire la musica è cambiata negli anni?
Se scopro qualche nuovo artista, mi lascio prendere da lui come un tempo, assolutamente. E’ meraviglioso imbattersi in qualcuno che ti ispira. Penso ai Mercury Rev, all’ultimo disco di cui, per coincidenza, Tony Visconti ha arrangiato gli archi. La prima canzone mi ha fatto venire i brividi lungo la schiena. Trovo difficile trovare oggi un artista di cui mi piaccia l’intero corpo del lavoro. Hooker e Dylan mi trasmettevano la sensazione che ogni cosa che cantavano, scrivevano, toccavano, fosse la perfezione assoluta, l’essenza della vita stessa e non provo più le stesse emozioni. Mi emoziono, devo ammettere, nel riscoprire vecchie cose. L’ultimo album mi ha condotto stranamente alla riscoperta di Richard Strass, il nome meno alla moda che potessi evocare, me ne rendo conto. Prima di morire ha scritto le sue ultime quattro canzoni che mi hanno ispirato e commesso in modo incredibile. No, nessuno come Hooker e Dylan agli inizi, no.
Heathen contiene canzoni che si possono rivolgere a Dio e agli uomini. Sei cattolico, vedi le cose spiritualmente e pensi che una delle bellezze dello scrivere canzoni stia proprio nella ambiguità del destinatario?
Mia madre era cattolica, mio padre protestante. Dalla parte di mia madre soprattutto, ho ereditato un fortissimo senso di colpa. Capita spesso ai bambini. Non erano praticanti in senso stretto, andavano a messa occasionalmente, ma professavano continuamente la loro fede. Litigavano anche per la supremazia di una religione sull’altra e forse è per questo che sono fuggito dalle religioni occidentali giudeo-cristiane, per abbracciare saltuariamente alcuni dettami del buddismo. Da ragazzo ero più determinato a diventare un monaco tibetano che una rockstar. Dai sedici ai diciannove anni sognavo di rinchiudermi in un monastero lama. E’ rimasta l’idea della rinascita, del passaggio da una vita all’altra. Niente rimane inalterato e niente di assoluto si tramanda da una religione all’altra. Gli anni hanno frantumato la mia fiducia nelle organizzazioni religiose che si occupano di cose terrene, politiche, di controllare e soggiogare le popolazioni e non di spiritualità come dovrebbero. A dire il vero, non mi sono mai, mai sentito parte di una chiesa, ma ho cercato di capire il significato di Cristo, di Budda. Seguo quelle tracce, ma non credo. Vorrei credere a un’entità superiore, che esista un piano, un disegno. Ma come dicevo all’inizio dell’intervista, più mi interrogo, più comprendo che non esiste nulla, né un’entità né un disegno. Siamo animali, niente di più. Se vuoi trovare te stesso, non andare nel deserto, vai nello zoo. Lì imparerai su te stesso e sulla razza umana, più che dalla meditazione.
Che cosa vorresti indietro dal passato e che cosa cancelleresti dal presente?
Cancellerei la religione e dal passato rivorrei probabilmente il vero senso che emergeva verso la metà degli anni sessanta di entusiasmo e partecipazione. Per quanto superficiale fosse, si respirava la voglia di lavorare insieme per un sogno, un’utopia non ben identificata. E non ho mai più provato sensazioni del genere. Dovremmo provare quelle sensazioni sempre, come un flusso che attraversa e percorre le nostre vite e dà a esse un senso e una ragione del nostro agire. Purtroppo tutto è evaporato velocemente. Vorrei questo, vorrei che mi restituissero la solidarietà degli anni sessanta e in cambio darei indietro questo ridicolo, arcaico sistema religioso che sembra imprigionare il mondo intero.
Caos, fragilità, sdoppiamento, decadenza, disperazione… questi sono alcuni elementi presenti non certo nella tua musica, ma in questa epoca. Trai ispirazione in qualche modo da essi o lo hai fatto in passato?
Sì, credo di sì. Mi piace l’idea dello sdoppiamento della personalità, dei due lati del Giano bifronte. Mi piace chi non è uno, ma due e contempla allo stesso tempo entrambi i punti di vista. Una delle cose che per fortuna la religione non ci ha insegnato è l’esperienza dello spreco della vita. La maggior parte delle religioni occidentali si basa sul principio che un giorno tutto sarà bello e in ogni momento. Io ho imparato invece che l’oscurità e la miseria sono parte dell’esperienza umana. Detesto l’idea che si debba evitare il dolore e la negatività… si deve sperimentare ogni cosa perché ogni cosa fa parte della vita e prima accetti questo principio e meglio è. Una volta f atto troverai un equilibrio, una serenità. L’equilibrio è serenità nell’accettare gli accadimenti, che naturalmente non vanno confusi con la debolezza. E’ semplicemente la comprensione di quello che stai vivendo nell’attimo in cui lo vivi. Il resto è impossibile da comprendere… è insano pensare che tutto possa essere ordinato, strizzato, piegato, omogeneizzato, protetto. In India c’è certo più sporcizia nelle strade, ma anche una comprensione infinitamente maggiore del senso della vita. Non ci serviranno le macchine che produciamo in serie, né gli hamburger di Mc Donalds o le bottigliette di Coca Cola ad avvicinarci alla vita.