Il grande coreografo, mimo e danzatore inglese Lindsay Kemp che tanto ha influenzato David Bowie e molti altri artisti, si è spento nella notte del 24 agosto nella sua casa a Livorno. Il ricordo dello straordinario artista affidato alla penna di Stefano Nardini co-fondatore di Velvet Goldmine nel 1999.
La foto ufficiale gliela scattò Mick Rock nel 1974 e quella divenne – dopo una rielaborazione pittorica – l’ immagine iconica di Lindsay Kemp, impiegata poi per i cartelloni di Flowers: la testa rasata, coperta di cerone bianco, le labbra rosse , l’eyeliner e il mascara che segnavano pesantemente i confini degli occhi, e due coppie di paillettes per un Pierrot senza genere, oltraggioso, ma perennemente commosso.
Oggi il ricordo di Lindsay Kemp si mescola inevitabilmente con una parte precisa della storia del teatro, che ha segnato la ricerca anti-accademica tra anni Settanta e tutti gli anni Ottanta. Nel ristretto panorama italiano, Kemp arrivò come una sorta di ciclone giocoso e allo stesso drammatico proprio alla fine degli anni Settanta, all’interno di uno sviluppo scenico che allora cercava ogni forma di espressione artistica, al pari di artisti coevi che fecero del corpo il campo prioritario della ricerca. Fu paladino della cultura camp, in un cocktail che riusciva a mescolare Maria Callas, Mozart, Jean Genet, Derek Jarman, Judy Garland, Nijinsky, solo per citarne alcuni, spirito del proprio tempo londinese e allo stesso tempo catalizzatore di grandi emblemi teatrali, il cabaret, la commedia dell’arte, il teatro elisabettiano, il kabuki; fu anche allievo dell’immenso Marcel Marceau, che ringraziava spesso nelle interviste per avergli insegnato l’uso delle mani.
Ho visto Kemp la prima volta un pomeriggio a Venezia al Teatro Goldoni, all’interno degli eventi dell’allora magnifico carnevale, che ospitava un festival internazionale di teatro diretto da un meraviglioso Maurizio Scaparro (siamo probabilmente nel 1980/81). In realtà lo avevo intercettato qualche settimana prima in un servizio su Rai due, all’Altra Domenica – programma di Renzo Arbore – in un servizio di Michel Pergolani sulla sua Salomè. In quel pomeriggio veneziano Lindsay Kemp teneva lezioni di trucco e – in una sala gremita – truccava volontari del pubblico. C’era una curiosa atmosfera causata da una inconsueta vicinanza tra spettatore e artista che spiazzava e cambiava le regole di un gioco teatrale che tutti supponevamo consumato. Un migliaio di persone restarono per due ore a guardare questo strano modo di essere in carnevale. Poi alla sera (qualche ora dopo) Duende, ispirato molto liberamente alla vita e all’opera di Federico Garcia Lorca. Ho un ricordo quasi orgiastico di quello spettacolo, dove lo spazio teatrale diventava rituale, luogo in cui si mescolava sacro e profano al limite del sacrilegio, sicuramente dell’irriverenza. Tutti coloro che hanno visto uno spettacolo di Lindsay Kemp non possono dimenticare l’intenso odore di incenso (quello che si usa nei riti religiosi antecedenti alla Pasqua) che colmava tutto il luogo della rappresentazione. Dopo lo spettacolo, non andai ai camerini, ma vidi tutta la troupe mangiare nella rosticceria che stava di fronte al teatro, tutti ancora truccati, in mezzo a persone che guardano sorpresi questi bellissimi attori, uomini e donne , che continuavano a partecipare a questa interminabile messa in scena in cui vita privata e masque si confondevano.
In uno spazio come questo è impossibile non ricordare il legame tra David Bowie e Lindsay Kemp, togliendo qualsiasi connotazione privata che l’appiattimento mediatico tende sempre a ricordare, per ricordare quanto Kemp abbia dato a Bowie, sia nella percezione del corpo come oggetto significante della scena che nella definizione dello stesso spazio scenico: le strutture dei palchi di tanti tour hanno sempre rimaneggiato le scale e i ballatoi tanto cari a Kemp. Apparteneva a entrambi questa incredibile forza nell’abbinare cultura alta e cultura popolare.
Lindsay Kemp in quegli anni attraversò l’Italia, ma anche l’Europa, il Giappone, segnando in maniera profonda gli spettatori che percepivano storditi la magia di questo mix di provocazione, di sberleffo, di disperazione e anche di angoscia di morte. Credo che nessuno degli spettatori presenti a una rappresentazione di Flowers possa dimenticare la scena conclusiva, quella Pietà michelangiolesca riadeguata alla storia di Divine con quella madre/madonna urlante e sanguinante sul corpo del figlio/amante morto sulle ultime note di A Saucerful Of Secrets dei Pink Floyd, a cui venivano aggiunte dal vivo delle percussioni martellanti.
E i saluti sul proscenio interminabili, inchinanti e lentissimi quasi all’infinito, come se lo spettacolo non potesse mai terminare e non ci si potesse distaccare da quella situazione magica, uterina, totalizzante.
In Flowers, solo due volte la voce umana veniva impiegata: nella parte finale appena descritta e circa a metà quando , in una sorta di cabaret, il grande amico non vedente di Lindsay – L’Incredibile Orlando – assieme agli altri del gruppo cantava Somewhere over the rainbow di Judy Garland, quello stesso brano che Bowie aveva inserito all’interno di Starman nell’agosto del 1972 al Rainbow di Londra.
In Italia Lindsay Kemp godette sin da subito dell’appoggio dell’indimenticabile Vittoria Ottolenghi, giornalista che allora si occupava di danza e organizzatrice di importanti festival di danza di quegli anni.
Tale era il segno che Lindsay Kemp lasciava da passare un pomeriggio a Domenica In presentato da Pippo Baudo con un breve happening che oggi scatenerebbe molto probabilmente una interrogazione parlamentare o almeno un intervento degli organi di vigilanza Rai. Lo accompagnava il fedelissimo David Haughton. Rappresentò la vita e la morte di un fiore sulle note del Laudate Dominum di Mozart.
Uno splendido libro di fotografie di Guido Harari, pubblicato da Editoriale Domus, oggi introvabile, catturò le immagini prima e dopo alcune rappresentazioni italiane.
Sono seguite tutte le altre creazioni, da Sogno di una notte di mezza estate a Mr. Punch, da Salomè a Nijinsky il matto, a Onnagata.
Ho visto Lindsay Kemp l’ultima vita a Milano in una serata dedicata alle grandi stelle della danza alla fine degli anni Novanta. Lui entrò in scena con un intervento da Onnagata, e due grandissime ali di angelo che si agitavano sulle note dell’Hostias dalla Messa da Requiem di Giuseppe Verdi; l’intero teatro rimase incantato di fronte a quel danzatore che con due lunghi stracci bianchi innalzava lirico il proprio desiderio ultraterreno.
Kemp è stato un artista da amare in maniera incondizionata, perché i suoi spettacoli erano un’immersione in un mondo proibito, torbido, ma contraddistinto da una lievità rara da incontrare.
Stefano Nardini
Lunedì 27 agosto è stata allestita la camera ardente al Teatro Goldoni a Livorno, Via Enrico Mayer 57 dove sarà possibile salutare Lindsay tutto il giorno dalle 11:00 alle 18:00. Tutti coloro che vorranno partecipare saranno benvenuti.
Alle 12:00 in diretta su Telegranducato il Saluto della città di Livorno al grande artista Lindsay Kemp. La cerimonia in diretta dal Teatro Goldoni di Livorno, sarà visibile in diretta anche sulla LIVE TV in diretta streaming a questo link.
In assoluto la testimonianza più bella, profonda e suggestiva che ho letto su Kemp.
Grazie Stefano Nardini e grazie VG che l’ha riportata.