La pubblicazione del Lazarus: The Cast Recording è stata per tutti noi un’emozione indescrivibile. Non tanto per la colonna sonora del musical, quanto per il secondo CD con una sorta di messaggio postumo da parte di Bowie: quattro brani di cui tre inediti, e di una bellezza straziante. Ce lo racconta Walter Bianco.
Il secondo CD /terzo vinile del cofanetto Lazarus: The Cast Recording, che raccoglie le pregevoli interpretazioni delle canzoni di Bowie date dal cast del musical Lazarus, è – ad essere sinceri – il vero motivo per il quale noi tutti abbiamo comprato questo cofanetto.
E, se lo avete fatto anche voi, non avete sbagliato: perché ogni nota di questo secondo cd merita di essere ascoltata. Non fosse altro per provare, per l’ultima volta, l’emozione, il piacere, il gusto della scoperta di un “nuovo album” di David Bowie. Ma in realtà c’è molto più di questo.
Andiamo con ordine e facciamo come si faceva una volta, quando i dischi non si scaricavano brano per brano, da internet, sbranandoli a pezzi come fanno le fiere su una carcassa, ma si gustavano a partire dalla confezione, dalla “copertina”.
E la copertina di Lazarus, con l’immagine della locandina del musical, è molto bella: le immagini del booklet alternano foto di scena e scatti presi durante le prove del musical. La penultima pagina del booklet pubblica invece l’ultimo scatto ufficiale di Bowie: il suo commiato in completo scuro e borsalino, e quella sua risata beffarda. Un colpo al cuore.
Nelle essenziali note del booklet, si spiega che l’idea del musical venne a Bowie a metà del 2013, ma che fu poi sviluppata nell’autunno del 2014, e si racconta che il cast aveva programmato la registrazione per l’11 Gennaio 2016. Quando arrivarono in sala di registrazione avevano appena appreso la terribile notizia della scomparsa di Bowie, e fu con questa emozione interiore che registrarono i brani del musical.
Su quelli ci soffermeremo in un secondo momento, ora passiamo subito al secondo CD, che contiene i quattro brani originali scritti per il musical, ed interpretati dallo stesso Bowie insieme alla band con cui ha registrato ★ Blackstar: Donny McCaslin al sax, Ben Monder alla chitarra, Tim Lefebvre al basso, Jason Lindner alle tastiere e Mark Guiliana alla batteria ed alle percussioni.
Si comincia con la title track, quella Lazarus, che rimarrà per sempre impressa nella nostra memoria, non solo per essere uno dei momenti più belli e riusciti dell’album ★ Blackstar, e sicuramente uno dei più intensi a livello emotivo, ma anche perché è la canzone del videoclip che in sé raccoglie tutto il senso drammatico della trasfigurazione allegorica della propria morte, messa in scena da Bowie col suo ultimo lavoro.
Killing A Little Time può essere annoverata, senza ombra di dubbio, tra le composizioni più belle della produzione musicale di Bowie da Outside in poi: uno scontro epico tra chitarre rock lancinanti e taglienti e un sax contorto e folle, su un tappeto di basso e batteria incalzante e frenetico. Bowie canta con mille sfumature diverse, aggressivo, rabbioso, melodico, profondo e aspro, con una vitalità vocale straordinaria: “this furious rage” ruggisce, ad un certo punto, ed è proprio una furia quella che esplode dai versi del brano: “Ho una manciata di canzoni, per pungolarvi l’anima un ultima volta, per fottervi di nuovo“.
Chi parla? Bowie? Thomas Jerome Newton, il protagonista del musical Lazarus di cui fa parte questo brano? Ancora volta, come spesso è avvenuto nella sua carriera, il gioco della maschera serve a mandare messaggi ammantandoli di apparente finzione. “Sono l’uomo che cade / Sono l’uomo che soffoca / Sono l’uomo che svanisce” canta nel refrain, mentre un pianoforte dissonante arricchisce il suggestivo caos sonoro, e la tentazione di farsi trascinare nel vortice dell’autobiografismo è forte. Ma non c’è alcuna autocommiserazione, e lo schermo del musical aiuta a dare all’autore il giusto distacco dal tema.
When I Met You, con una ritmica che ricorda cose del passato, come Strangers When We Meet, con la sua dichiarazione d’amore disarmante e sincera, esprime di più dal punto di vista testuale, che non dal punto di vista musicale, indebolita da un ritornello un po’ troppo fiacco sotto il profilo melodico. In questo caso l’arrangiamento arricchisce una melodia non proprio riuscita. Rimangono però quei versi, sempre densi di significati e di riflessioni: “Quando ti ho incontrata / Ero troppo folle / non potevo credere a nulla / ero fuori di testa / ero pieno di verità / ma non era quella di Dio / prima che ti incontrassi”.
E poi c’è la perla assoluta:
No Plan. Una melodia eterea, delicata, fatta di luce e di riflessi, in cui il sax morbidamente si appoggia su arpeggi di chitarra e tessiture di tastiere trasognate. Bowie qui canta senza rabbia, senza risentimento, senza rammarico, con una straordinaria lucentezza e chiarezza vocale. E ci regala una sorta di commiato che ci viene già da un luogo che è “oltre”, un luogo che ci spaventa nella sua inconoscibilità, ma che nella voce e nelle parole dell’artista, appare sereno e pacificato:
“Tutte le cose che compongono la mia vita
I miei stati d’animo
Le mie convinzioni
I miei desideri
Io da solo
Niente da rimpiangere
Questo non è un luogo, ma eccomi qui
Non è ancora finita”
Non c’è dubbio che – come spesso accade ai veri artisti – anche per David Bowie il dramma personale vissuto negli ultimi diciotto mesi della sua esistenza sia stato uno stimolo straordinario alla sua creatività, che già aveva dato segni di “irrequietezza” nell’esperimento jazz di Sue (or in a season of crime), realizzata insieme Maria Schneider.
Visto adesso nel suo complesso, i vari elementi quali l’album ★ Blackstar, i video che lo accompagnano , il musical Lazarus ed i brani originali composti per il musical, concorrono a delineare un quadro in cui Bowie ha voluto in qualche modo dare un ultimo sfogo alla propria creatività e parlarci di sé, nel più libero dei modi, senza farsi frenare da troppi calcoli e studi di mercato, che forse avevano tolto originalità ad un album come The Next Day.
E’ così che Lazarus, con la scelta del soggetto, legato ad uno dei momenti cruciali della carriera di Bowie e ad uno dei personaggi che più lo hanno caratterizzato, emotivamente ed iconograficamente, è un modo di trasfigurare, attraverso l’uso della maschera dell’alieno “caduto sulla terra”, una riflessione più ampia su sé stesso, e su noi stessi: le debolezze, la paura di affrontare la vita, il senso di alienazione, la libertà come anelito inesauribile ed inesausto. Bowie fa quello che ha sempre fatto, egregiamente: usare una maschera, un personaggio, per esprimere sé stesso.
E’ in questa chiave, non necessariamente univoca, che vanno letti i testi, suggestivi, evocativi come pochi, di queste ultime canzoni, nelle quali è davvero difficile sfuggire alla tentazione di pensare che stia parlando di sé stesso.
Con Lazarus, Bowie chiude i conti col passato, togliendosi nel contempo lo sfizio che ancora gli mancava: la realizzazione di un Musical.
Con ★ Blackstar, invece, fissa lo sguardo nel pieno centro dello “Spavento Supremo”, come lo chiama Franco Battiato, “The Great I Am” come lo definisce lui stesso, e ce lo racconta con una poeticità ed una lucidità assolute. Lasciando ai posteri un testamento in musica che sfugge alle catalogazioni ed ai giudizi.
Tempo fa, nel 2002, Bowie, parlando di Heathen ed in particolare di pezzi come Sunday o Heathen (The Rays) raccontava di essersi ispirato agli “Ultimi Quattro Lieder” composti da Richard Strauss prima di morire: “C’è una dimensione universale nelle melodie che Strauss scrisse alla fine della sua vita, all’età di ottantaquattro anni” dice Bowie in un’intervista; “penso che siano i brani più terribilmente romantici, tristi e toccanti che siano mai stati scritti (…) un messaggio trascendentale, traboccante di struggimento d’amore per la vita che lentamente svanisce”.
Ecco, la passione di Bowie per quegli Ultimi Quattro Lieder di Richard Strauss, non si è esaurita in Heathen, quando la vita – con la nascita della figlia Alexandria – gli sorrideva ancora in maniera troppo promettente. La VERA traduzione in musica di quel messaggio che tanto aveva colpito la sua immaginazione, pensiamo sia contenuta in queste ultime opere, in cui Bowie è riuscito a sua volta a lasciare un “messaggio trascendentale, traboccante di struggimento d’amore per la vita che svanisce”.
When I Met You. L’aggancio al rito tribale, la composizione complessa e non la trovo in nessuna parte fiacca, qui si trova la tribalità, la ritualità con la ripetitivà come ho già detto tribale, con i tamburi che inneggiano a quello che stà per arrivare e lui deve affrontare, il rituale di abbandono, e di ciò che si è incontrato che ora bisogna esorcizzare, tutto quello che si è fatto avuto e abusato, della vita della droga e di tutto quello che su un percorso si è affacciato…When I met you (You were afraid)
When I met you (She stole your heart)
I was the walking dead (She tore you down)
I was kicked in the head (She tore you down)
It was such a time (When I met you)
It was such a time (When I met you)
I was crushed inside (When I met you)
poi c’è il finale, pieno di consapevolezza e
Quando ti ho incontrata
Ero troppo folle
Non potevo credere a nulla
Ero fuori di testa
Ero pieno di verita’
Ma non era quella di Dio
Prima che ti incontrassi,…………
io continuo a cantare quelle parole
When I Met You, come per esorcizzare non posso farne a meno
sono tribale sono tribale, voglio scacciare via tutto..
IL RIFERIMENTO
il riferimento è il suono di LODGER
e soprattutto LOOK BACK IN ANGER
il cerchio è ancora aperto, e difronte al fuoco di questa canzone continuo a ripetere instancabilmente e a battere sul mio tamburo
WHEN I MET YOU
P.S
non per nulla è l’ultima traccia