“Looking for Bowie”, un nuovo volume della Arcana dedicato a David Bowie ad opera di Matteo Tonolli, uscirà in libreria il 27 ottobre.
Esce il 27 ottobre un nuovo volume dedicato a David Bowie, anche questo targato Arcana, a opera di un appassionato che abbiamo imparato a conoscere anche sulle pagine di questo sito: Matteo Tonolli. Matteo, che per quanto riguarda Bowie può vantare una lunga serie di interviste, recensioni e articoli su numerose testate, ama definirsi ancora oggi un “debuttante assoluto”. Il libro “Looking for Bowie” (sottotitolo: L’uomo e le sue maschere“) aggiunge ulteriori spunti alla complessità di questo artista poliedrico. Con 360 pagine ricche di interviste esclusive e approfondimenti, il libro è una preziosa risorsa per tutti coloro che desiderano approfondire le mille sfaccettature di un artista che non si smetterebbe mai di studiare.
Attraverso conversazioni con una vasta gamma di collaboratori, che includono musicisti, pittori, fotografi, grafici e molti altri, l’autore offre una panoramica completa sull’approccio di Bowie alla musica e all’arte visuale, al cuore pulsante di Bowie.
Emerge chiaramente la sua dedizione nell’integrare la propria creatività musicale con una straordinaria ricerca dell’immagine e una scrupolosa attenzione ai dettagli. Approccio che ne ha caratterizzato la carriera durante gli ultimi tre decenni del Novecento e ha fatto da pietra miliare per l’inizio del nuovo millennio.
Una delle caratteristiche di “Looking for Bowie” è il suo ampio respiro cronologico, che copre l’intero curricolo di Bowie. Gli intervistati concedono ricordi, rivelazioni e aneddoti che svelano il lato più umano, l’uomo dietro il mito.
Tra gli intervistati Masayoshi Sukita, il fotografo giapponese che ha scattato la celebre copertina di “Heroes“, Candy Clark, l’attrice che ha recitato con Bowie nel film “L’uomo che cadde sulla Terra“, Edward Bell, il grafico che ha disegnato le copertine di “Scary Monsters” e “Tin Machine“, Antonín Kratochvíl, il fotoreporter che ha documentato il viaggio di Bowie in Somalia per Amnesty International, Terry O’Neill, il leggendario fotografo britannico che ha catturato Bowie in molte fasi della sua carriera, e Denis O’Regan, fotografo ufficiale del tour “Serious Moonlight“.
“Looking for Bowie” non è solo un’opera incentrata sul passato, ma abbraccia anche il presente. Matteo Tonolli offre anche una serie di recensioni a volumi usciti negli ultimi anni, offrendoci uno sguardo sulla recente editoria dedicata a David Bowie.
Il volume, sebbene accompagnato da una splendida foto concessa da Andrew Kent, non include inserti fotografici all’interno.
ACQUISTO
Con un prezzo accessibile di € 19,50 euro per 360 pagine, è un ulteriore interessante tassello che va ad aggiungersi alla letteratura sul nostro David. Sarà acquistabile in tutte le librerie fisiche e non a partire dal 27 ottobre e, naturalmente, su Amazon in preordino.
ESTRATTI
Vi proponiamo alcuni estratti dal libro “Looking for Bowie. L’uomo e le sue maschere” di Matteo Tonolli, per gentile concessione di Arcana edizioni.
ESTRATTO 1: Louanne Richards / Sessione fotografica a Haddon Hall (1971)
Quale fu l’approccio di Bowie per la sessione?
Ricordo che fui io a suggergli dove posizionarsi, sedersi o girare la testa, se guardare l’obiettivo, da un’altra parte oppure nella medesima direzione. Divenne ben presto chiaro che avesse un talento istintivo con la fotocamera. Era in grado allo stesso tempo sia di rilassarsi che concentrarsi. Avvertii la sensazione che stesse ‘orchestrando’ la sessione fotografica ad un certo livello e davvero quello che realizzai fu poco più che guardare come la luce cadesse sui suoi lineamenti. Aveva questo curioso mix di intensità, bellezza e inconoscibilità.
Nelle sue note al recente box Divine Symmetry ha rivelato che fu molto amichevole e intrigante. In che senso?
Rimasi sorpresa dal fatto che fosse così disponibile. Aveva uno fascino disinvolto che però probabilmente nascondeva una riservatezza più profonda. Sentii che aveva una integrità di spirito, una forza interiore che era inviolabile, impossibile da scalfire.
Quante foto realizzò in quell’unico pomeriggio di lavoro con lui, proprio nel periodo in cui registrava le tracce di Ziggy Stardust?
Scattai tre rullini da pellicola di 35mm. In totale circa 100 pose. Il primo era focalizzato sull’ambiente di Haddon Hall e mostrava la David con Angie e il figlioletto Zowie in prossimità della grande scalinata, vicino a degli strani pupazzi. Il secondo era in parte dedicato a David e in parte ancora agli altri componenti della sua famiglia. Il terzo rullino è il più interessante con ritratti in esterno a David da solo. Quelle sono le immagini migliori, con qualcosa che inizia a vibrare tra lui, la luce e l’obiettivo.
Cosa pensò quando divenne famoso? Prima con Ziggy, poi come cantante soul, un crooner berlinese, quindi una pop star con Let’s Dance e via di seguito… lo rivide ancora?
Sfortunatamente mai più. Mi sono progressivamente interessata all’originalità della sua musica e all’ampia portata delle influenze che stimolavano la sua creatività. Negli anni ’60 conoscevo il regista Nicolas Roeg e fui intrigata dal fatto che lo avesse reclutato per The Man Who Fell to Earth. Seppi successivamente che era un periodo difficile nella vita di Bowie. Suppongo che Roeg e David abbiano avuto delle conversazioni interessanti!
Se avesse la possibilità di tornare indietro a quel giorno farebbe lo shooting allo stesso modo o cambierebbe qualcosa?
Probabilmente no. Quella sessione aveva una precisa traiettoria che ha avuto senso sia per David che per me stessa. Ci fu una silenziosa ma reciproca comprensione di come dovesse essere svolta.
ESTRATTO 2: Terry O’Neill / Sessioni fotografiche dentro e fuori gli studi nel corso degli anni ’70
Cosa prova quando guarda le immagini di David, scattate tanto tempo fa?
Ricordo ogni cosa della sessione al Marquee per il 1980 Floor Show. David fu assolutamente professionale e si esibì numerose volte per ogni singola canzone, in modo che le riprese fossero perfette. Ora però, riguardando specialmente il mio libro, mi rendo conto che ci sono molte foto che non vedevo da decenni. Nuovi provini, immagini che non avevo mai stampato prima. Sfogliandolo, mi sento come se fossi ancora là. Tecnicamente invece, quando guardo gli scatti di Diamond Dogs mi viene da ridere perché è stato completamente fortuito. Avevamo questo gigantesco cane vicino a David e quando il flash scattava il cane saltava. Ogni persona all’interno dello studio trasaliva spaventata e io mi nascondevo dietro l’obiettivo. David invece non muoveva un singolo muscolo.
Gli scatti di Bowie con Elizabeth Taylor sono strabilianti. È risaputo che lui arrivò in forte ritardo e forse l’attrice si innervosì. Eppure guardando le foto si intravede una buona complicità tra i due. Elizabeth stava ‘recitando’?
Non credo. Elizabeth Taylor è stata una delle persone più belle, attraenti e fascinose che io abbia mai incontrato. Lei aveva davvero il desiderio di incontrare David – e aveva suggerito che lui partecipasse ad alcuni film nei quali stava lavorando. Quando alla fine Bowie arrivò, lei prese il controllo completo della photo session – dicendogli dove e come posizionarsi, scambiandosi con lui il cappello – è stata totalmente professionale e conosceva meglio di chiunque altro come lavorare davanti ad un obiettivo.
Ha definito Bowie con termini quali “curioso”, “talentuoso” “un uomo di gran classe”. Ci sono altri aspetti privati di lui che potrebbe fare conoscere ai suoi fan?
Non credo, ma posso dire che era una persona molto generosa, soprattutto nei confronti del proprio tempo. Non l’ho mai visto essere ‘avaro’ con nessuno, nel senso che dedicava sempre attenzione e tempo nei confronti, specialmente, dei fan. Lo si può notare in alcune immagini che ho scattato a lui sul palco – prima che posizionassero quell’enorme divario tra il pubblico e lo stage – David continuava a piegarsi in direzione dei fan, firmando autografi e toccando mani. Queste cose non succedono più ormai.
Qual’è la ‘maschera’ che preferisce di Bowie?
I miei scatti preferiti credo siano quelli che mi hanno dato l’opportunità di fotografare David, non David Bowie. Le immagini che fui in grado di realizzare di lui con Elizabeth Taylor o William Burroughs, mostrano semplicemente David con coloro che lui ammirava. Ho anche realizzato alcuni scatti della sua partecipazione alla festa per il cinquantesimo compleanno di Peter Seller, a Los Angeles. David era là con Joe Cocker, Ronnie Woods, Bill Wyman e Keith Moon – e iniziarono a suonare assieme. David suonò il sassofono. Fu fantastico!
ESTRATTO 3: Greg Gorman / Sessioni fotografiche in studio nel corso degli anni ’80
Nelle vostre collaborazioni del 1983 e del 1984 lei fotografò tantissimo Bowie, che compariva con un sacco di cambi d’abito…
David si rendeva conto dell’importanza della pubblicità. Voleva fare spesso queste sedute fotografiche perché si divertiva ma era anche altrettanto consapevole di quanto i media fossero essenziali, ancor prima dell’avvento dei social. Nel caso che avesse un disco da pubblicare oppure un altro progetto da promuovere, proprio come le sessioni che realizzammo assieme. Ad esempio la copertina di Let’s Dance o le foto promozionali per Tonight.
Quanto poteva durare una seduta?
Quella del 1987 per Never Let Me Down andò avanti per tre, lunghi, giorni interi. Dalla mattina fino alla sera, quando era ora di andare a cena. David prese per buone circa sei o sette immagini al giorno. Naturalmente c’erano dei cambi completi di abiti, background, set, posture, atteggiamento… L’idea era quella di dare una serie di foto diverse per ogni magazine e giornale: The Times, Newsweek… nello stile della loro testata, anche l’immagine da affidare alle loro copertine. Tutto questo David lo gestiva con la propria compagnia, la Isolar.
Dalle foto per Tonight, una diventò la copertina dell’omonimo singolo, ma le altre sono piuttosto interessanti perché meno conosciute dai fan.
Sì, quella volta eravamo a Londra e fu meraviglioso lavorare ancora assieme. Lo stilista Steven Sprouse mi aveva mandato un pacco zeppo di vestiti della sua ultima collezione dell’epoca. David li indossò tutti con entusiasmo, si trattava di favolosi outfit e facemmo delle foto grandiose.
Ha visto la David Bowie Is exhibition?
Sì, l’ho visitata più di una volta in America. La prima è stata a Toronto. Una mostra molto interessante, anche se non ho visto molto del mio lavoro all’interno. Forse perché non sono molto vicino alle case di produzione musicale ormai. Ho frequentato spesso e da vicino per molti anni David, avevamo un ottimo rapporto, ci siamo divertiti e abbiamo realizzato diversi lavori interessanti insieme. Invece non ero particolarmente a mio agio con la sua assistente storica, Coco Schwab. Era strana. Una persona difficile. Non le piacevo. Al diavolo!
ESTRATTO 4: Stephen Finer / Collaborazione di natura pittorica intorno alla metà degli anni ’90
Il suo più famoso dipinto è senz’altro quello intitolato semplicemente David Bowie, esposto nella stanza numero 28, al secondo piano della National Portrait Gallery. Come è stato possibile che il museo l’abbia acquista prima del cantante?
Non fui coinvolto nella compravendita. Mi venne detto che David voleva acquistarlo ma naturalmente era contento che la National Portrait Gallery lo comprasse per la sua collezione. In seguito, parlando con un curatore del museo, lui definì la mia opera come un “dipinto meraviglioso”.
Lei non ha solo realizzarlo quadri su Bowie, gli ha anche scattato diverse Polaroid…
In totale gli ho fatto circa 40 foto. Alcuni di David da solo, altre insieme con Iman e ancora altre solo di lei, alcune in cui era nuda. La maggior parte non sono state pubblicate. David e Iman le videro e lui ne chiese una per poterci lavorare sopra, aggiungendo che si sarebbe assicurato che il copyright rimanesse mio.
Vide Bowie anche in azione sul palco?
Sono andato a vederlo durante l’Outside Tour, venerdì 17 novembre del 1995 alla Wembley Arena. Ho ancora il biglietto di quel concerto. All’epoca avevo già completato alcune dei miei dipinti di David e Iman.
In un video che negli ultimi anni Iman ha girato per Vogue dentro la loro casa di Catskills, è possibile scorgere alcune delle sue opere appese alle pareti. Crede che Bowie fosse attratto dalla sua tecnica o da altro?
Non lo so. Quando ci incontrammo la prima volta lui semplicemente mi disse: “Mi piacciono molto i tuoi dipinti, Stephen. Ci terremo di certo in contatto”. Non parlammo di arte o di tecniche pittoriche né allora né in seguito.
Cosa preferisce di Bowie?
La sua costante reinvenzione musicale, che si sprigiona oltre Blackstar.
ESTRATTO 5: Michelle Beauchamp / Collaborazione per il videoclip Strangers When We Meet (1995)
All’epoca quanto conosceva la produzione di David Bowie?
Avevo familiarità con la maggior delle sue canzoni degli anni ’80 sin da quando ero adolescente, così come con la sua recitazione in Labyrinth e in Myriam si sveglia a mezzanotte. Amavo anche le sue prime canzoni. Era un personaggio iconico e unico, qualcuno che non aveva timore di esplorare e scoprire le diverse sfaccettature di sé stesso, mostrandole al pubblico. Rispettavo quell’audacia e quel coraggio. Ancora oggi continuo a scoprire molti nuovi aspetti di lui e come la sua non conformità lo definisse.
Il regista Samuel Bayer le aveva dato qualche precisa istruzione a riguardo della sua performance?
Tutto quello che vedi nel video è improvvisazione. Nessun coreografo. Quello che abbiamo fatto è stato frutto di un momento di ispirazione. Non ho idea se qualcosa provenisse da una storia preesistente. Quello che provai fu di entrare in un mondo surreale dove non c’erano regole o linee guida. Solo ascoltare la musica, sentire la vibrazione, toccare il tuo creativo io interiore e lasciarsi andare. Era terrificante e magnifico allo stesso tempo, ricevere una simile licenza creativa a quella giovane età. Ci furono soltanto alcuni suggerimenti informali e vaghe indicazioni per entrare nel mood giusto. Accettati quelli, decollammo.
Cosa può dirmi del suo delizioso costume di scena? Sembrava incarnare una strana creatura: metà donna e metà bambola… un ibrido, un pupazzo di carne e pezza. Anche per questo le chiedo se ci fosse stata un’ispirazione di qualche tipo.
Sono sicura di sì, ma non mi venne comunicato. Semplicemente mi condussero al guardaroba e mi fecero indossare quel bel costume, dentro il quale però riuscivo a respirare a stento, in quanto la mia bocca era coperta dalla stoffa. Se osservi attentamente le inquadrature dove ci sono io si può notare che l’apertura dove era la mia bocca si apriva leggermente sempre di più. Alla fine delle riprese lo avevo quasi completamente strappato perché davvero non ce la facevo quasi più a respirare.
Cosa accadde esattamente quando incontrò Bowie per la prima volta?
Non dimenticherò mai l’esatto momento nel quale stavo entrando nello studio, non sapendo se tutto quello che stava succedendo fosse meritevole per me. Era troppo bello per essere vero. L’audizione era stata davvero di basso profilo. Sembrava tutto sospetto. Mi ritrovai là con David sul palco, che indossava quel maglione a strisce e due unghie della mano dipinte di blu scuro. Poi si mise a ballare tenendo il maglione su un appendiabiti. Dovetti fermarmi e punzecchiarmi. Alla fine mi convinsi del fatto che fosse tutto reale… e surreale!
Quale fu l’attitudine di David durante le riprese? Altri suoi collaboratori sono sempre concordi nel dire che era abitualmente divertente, collaborativo e amichevole.
Assolutamente. Era proprio così, ma anche genuino, gentile e accogliente. Di tanto in tanto mi chiamava al monitor per mostrarmi quello che avevamo appena girato e per chiedere la mia opinione. Riusciva ad essere confidenziale e allo stesso tempo possedeva l’aurea della grande star. Un uomo sincero con se stesso e con la curiosità e l’umiltà del vero artista. Fu una delle esperienze più straordinarie della mia vita. Ballare improvvisando, ridere, recitare… creare qualcosa per un artista così iconico come David Bowie è stato veramente uno dei momenti più alti della mia carriera. Quando le riprese terminarono, andai seriamente in astinenza.
ESTRATTO 6: Tim Bret-Day / Sessione fotografica in studio per la copertina di Hours (1999)
Quando e come si è svolta la sessione?
Era il 1999. La sua assistente Coco Schwab portò l’abbigliamento necessario e si occupò della cifra stilistica. Abbastanza curioso, perché quel giorno ai Big Sky Studios sembrava esserci un sacco di gente. Ho ritrovato un filmato di quel giorno nel quale non riconosco quasi nessuno, solo la mia assistente Sarah Greenwood. Le uniche richieste di David riguardarono le sigarette, il caffè e non far suonare la sua musica. Sfortunatamente Sarah lo prese alla lettera, inserendo nel lettore CD l’Unplugged dei Nirvana, dimenticando che la prima traccia era la loro cover di The Man Who Sold The World. Non appena il ben noto giro di chitarra risuonò dagli amplificatori David apparve furioso. Ci sentimmo sprofondare e la mia assistente non riuscì immediatamente a raggiungere il tasto del volume. Pensai di aver compromesso tutto. Poi la sua espressione si trasformò in un ghigno sardonico… “Ci siete cascati!” Scherzò sulla versione di Kurt Cobain e proseguimmo a lavorare.
L’idea per la copertina di Hours è fondamentalmente basata su La Pietà di Michelangelo. Un Bowie sdoppiato in una versione più giovane che sorregge il sé stesso più anziano. Come si arrivò a questa scelta?
Era una sua idea e fu davvero insistente a riguardo. Dovevamo farla funzionare. Credo si rendesse conto di quanto il suo passato fosse importante, ma nonostante l’amasse anche lui, desiderava andare oltre e progredire. La sua attenzione all’avvento dell’epoca digitale andava di pari passo con la necessità di disfarsi della versione analogica di sé stesso. Era un precursore dei suoi tempi, un vero viaggiatore del tempo.
Nel booklet del box della Parlophone box Brilliant Adventure, ci sono un paio di immagini progettuali per quella copertina…
La prima è una polaroid assemblata da due scatti diversi senza nessun ritocco sofisticato, semplicemente tagliati e incollati. Quel giorno furono fatte molte polaroid e me ne sono rimaste pochissime, tra cui una per l’immagine di Thursday’s Child. Sono tutte ‘misteriosamente’ scomparse alla fine della giornata!
L’immagine usata per il disco consiste in una versione giovanile, angelica e quasi femminea di David che sorregge in grembo il vecchio corpo di sé stesso, risalente ad almeno un paio di anni prima. Nonostante fosse molto potente e originale all’epoca non tutti la apprezzarono… foste soddisfatti del risultato finale?
Era una solida dichiarazione per scrollarsi di dosso il passato e muoversi in direzione di una nuova era. Voleva fare tabula rasa, una decisione molto coraggiosa. Sapeva che avrebbe dovuto suonare ancora i suoi classici ma allo stesso tempo desiderava creare un nuovo Bowie. Penso che le canzoni su quell’album fossero molto minimaliste. Ci impiegò un po’ a conquistare il suo pubblico. Il disco ricevette recensioni miste ma col tempo i fan aumentarono e lo apprezzarono. Adoro Thursday’s Child, If I’m Dreaming My Life, Survive e The Pretty Things Are Going To Hell.
ESTRATTO 7: Jonathan Barnbrook / collaborazione per le grafiche da Heathen (2001) fino a Blackstar (2016)
Come è stato incontrare e avere vicino un grande artista come lui?
Ero terrorizzato, naturalmente. Ma devo dire che quando ci siamo incontrati lui è stato divertente e umile, mi ha messo immediatamente a mio agio. Totalmente un’altra cosa dall’essere una ‘big star’. Lo ricordo sedere vicino a me, chiacchierare e sorridere. Questo non significa che non possedesse una grande presenza: faceva in modo di essere amichevole, ma in ogni caso se ci lavoravi assieme pretendeva il massimo da te. Iman era arguta e molto intelligente. Ricordo anche di quanto apparissero innamorati – tra loro c’era una meravigliosa e genuina energia.
Dopo il 2004, Bowie scomparve a lungo… Lei ha lavorato con lui prima e dopo. Cambiò qualcosa nel vostro modo di collaborare?
Fui in contatto con lui anche durante quel periodo, e c’erano varie cose in ballo, per esempio la mostra David Bowie Is, che venne programmata 5 anni prima della sua inaugurazione e nella quale fui coinvolto a pieno titolo, perciò non smettemmo mai di confrontarci. Chattavamo anche solo per il piacere di farlo e per inviarci l’un l’altro materiale che trovavamo interessante. Quando nel 2013 ritornò per rilasciare il nuovo album, fu chiaro che lo avrebbe fatto alle sue condizioni. Penso che non avesse più nulla da dimostrare. Ha realizzato alcuni dei migliori dischi nella storia della musica pop e non sentiva più il bisogno di cercare successo o approvazioni. Il metodo di lavoro in realtà non cambiò molto. Voleva ancora che il design fosse il migliore possibile, ma notai che era più felice di seguire le mie idee. Aveva fiducia in me.
Parlando del suo ultimo album Blackstar… alcuni fan stanno ancora cercando nuovi significati nel suo artwork e nel booklet. Può confermare qualcosa a riguardo?
Ho promesso a David di non commentare nulla di quello che concerne Blackstar, quindi è meglio non rispondere alla domanda. Vorrei solo dire come questo disco sia uno dei suoi più grandi lavori, spietatamente sincero – ci è voluto molto coraggio per lui fare un album e affrontare la fine della sua vita in quel modo. Cercare una motivazione al segreto di Blackstar è un atto molto creativo.
Cosa pensa delle ultime release postume di Bowie? Crede che lui le avrebbe apprezzate?
Ho curato personalmente Glastonbury 2000. Invece non ho niente a che fare con la copertina di Toy. Credo sia una delle più brutte in assoluto. Non mi sono piaciute nemmeno quelle degli ultimi box set antologici. Penso che se David fosse ancora vivo avrebbe fatto come in precedenza. A causa degli standard della Warner mi avrebbe chiamato nel panico e chiesto di tirare fuori una copertina decente in un paio di giorni prima della sua uscita. È proprio quello che successe ad esempio con la raccolta Nothing Has Changed.
Estratto da “Looking for Bowie. L’uomo e le sue maschere” di Matteo Tonolli, Arcana edizioni. © 2023 Lit edizioni s.a.s. per gentile concessione