Bloody Bowie | Tank Girl, n.2, dicembre ’95/gennaio ’96

Mi chiamo Nathan Adler, o Professor Detective Adler nel mio circondario. Faccio parte della divisione Crimini Artistici Ass., la società di recente istigazione fondata con un contributo del Protettorato delle Arti di Londra. L’arte è una fattoria. Il mio mestiere è frugare nel mucchi di letame alla ricerca di granelli di pepe. Tutto e tutti mi muoiono attorno

Di progetti come 1.Outside ne nasce uno ogni decennio.
E questo lavoro è destinato a segnare una svolta nel concetto di arte globale, al crepuscolo di un secolo che guarda l’alba di un nuovo millennio. A realizzarlo due artisti totali, Bowie e Eno – di nuovo accanto dopo 16 anni – con la collaborazione di altri straordinari musicisti, alcuni dei quali accompagnano l’ex White Duke da anni. Ma una volta tanto non si tratta di un progetto esclusivamente musicale, bensì di un pretesto per condensare in un unico lavoro decenni di esperienze in ambito sonoro, letterario, visuale, pittorico, concettuale, interpretativo. Già il titolo –1.Outside – chiarisce che si tratta della prima parte di un work in progress destinato a continuare e a completarsi entro la fine di quel millennio che anticipa e descrive. E per sviluppare l’intricata trama, per muoversi agevolmente tra i vari livelli della narrazione e delle emozioni, Bowie ed Eno ricorrono ad un metodo che in gergo artistico viene chiamato il mescolamento delle tecniche, riuscendo ad operare una sintesi perfetta delle proprie straordinarie carriere, condensando in 1.Outside una summa ideale di quanto espresso finora e proponendosi ancora come punti di riferimento per la scena musicale contemporanea. La storia ha inizio il 31 dicembre del 1999, quando il corpo della quattordicenne Baby Grace Blue viene trovato dissezionato tra i pilastri dell’ingresso al Museo di Parti Moderne di Oxford Town, in un originale quanto orribile allestimento che utilizza le componenti anatomiche della vittima per rivendicare purezza artistica all’atto criminale. E’ un delitto, ma si tratta di arte? Delle indagini viene incaricato il Prof. Detective Nathan Adler, hacker della Divisione Crimini Artistici, il primo dei tanti personaggi ai quali Bowie dà voce trasportandoci con naturalezza in un futuro inquietante ma ricco di sorprese. La grande metafora dell’immediato futuro senza speranza per l’umanità viene descritta utilizzando la tecnica del cut-up inventata da Burroughs, ovvero frammenti di testo mescolati alla rinfusa del megacomputer di Bowie o, come dice Nathan Adler nel diario contenuto nel libretto allegato al cd “nel Mack-Verbasiser, il programma Metarandom che ti ristringa la vita vissuta in improbabili fatti virtuali”.

I suoni del disco sono di un’attualità mozzafiato e si passa da citazioni della trilogia berlinese (Low, Heroes, Lodger) a momenti di umorismo alla Trent Reznor (coinvolto nel remix di The Hearts Filthy Lesson e attualmente in tournée con Bowie), da atmosfere ambient tipiche delle incisioni di Brian Eno al rock modernista e di frontiera, dal dandismo stile Roxy al soul moderno e danzabile tipico di un Bowie magistralmente all’altezza. Non mancano i momenti di ricerca pura e la bellezza del progetto sta proprio nel perfetto equilibrio tra impegno e fruibilità, grazie anche all’apporto degli straordinari musicisti. Oltre a Bowie e Eno, c’è il piano di Mike Garson (ricordate Aladdin Sane e David Live?), le chitarre di Carlos Alomar – un fedelissimo – e Reeves Gabrels (Tin Machine), le batterie di Sterling Campbell (Soul Asylum) e Joey Baron (Naked City, Berne, Frisell e Zorn), quest’ultimo proveniente dall’esperienza di Eno con Laurie Anderson. Una nota a parte merita il multistrumentista Erdal Kizilcay, che aveva avuto un ruolo di primo piano in The Buddha of Suburbia e che qui offre un contributo essenziale al basso e alle tastiere. Occhio al libretto interno e alle splendide illustrazioni computerizzate. Non crederete ai vostri occhi, ma tutti i personaggi, vecchi, giovani, neri, bianchi, uomini, donne, sono la stessa persona: David Bowie. Un album grondante inquietudine ma gonfio di passione, vi strizzerà il cervello ma vi farà ballare, vi spaventerà ma qualcuno di voi non potrà farne a meno. Per certa critica Bowie sarà sempre il Duca Bianco, io vi garantisco che i suoi abiti sono sporchi di sangue e che il neo gli dona come ai tempi di Fashion. E in coppia con Eno è quasi imbattibile. Ora aspettiamo 2.Inside. Prima o poi sapremo chi è l’outsider; l’artista killer. Sì, questa è arte.
Clamor

“OUTSIDE”, O IL BRAVE NEW WORLD DI DAVID BOWIE

David Bowie è troppo intelligente e colto per non aver compreso da lungo tempo che il rock non si evolve ma tende inevitabilmente (per la sua natura di prodotto di massa legato al sistema della moda) ad un eterno e ciclico ritorno si stili ‘leggeri’ alternati a stili ‘impegnati’, nell’eterno presente del revival. La fine degli anni Settanta – protattasi come spesso accade per i ‘decenni’ culturali e artistici, fino a circa il 1982 – vide l’abbandono e il superamento dell’idea (o illusione) di un possibile art rock, condivisa da Bowie con due altri esponenti di punta di quella tendenza, entrambi suoi collaboratori e amici: Brian Eno e Robert Fripp. Esemplare è il confronto fra le loro diverse traiettorie. Attorno al 1977, dopo album come “ANOTHER GREEN WORLD” e “BEFORE AND AFTER SCIENCE“, Eno si fece tutore di gruppi fondamentali della nuova ondata quali Devo e Talking Heads e della svolta bowiana di “LOW” e “HEROES“, ma al contempo si allontanava a velocità crescente dalla galassia rock, trasformandosi con pieno successo in artista multimediale e musicista ‘serio’, nonché in produttore in un senso più tradizionale del termine. Fripp, dopo l’album solista “EXPOSURE” (per molti versi analogo ai coevi lavori di Bowie e di Eno), ritenne di poter raccogliere i frutti di quanto seminato nel 1973-74 con album quali “LARKS’ TONGUES IN ASPIC“, “STARLESS & BIBLE BLACK” e “RED“, e creò una versione dei King Crimson tagliente come una spada; ma dopo una triade di album programmaticamente color magenta, cyan e giallo, si ritirò per dar vita all’esoterica didattica della League of Crafty Guitarists.
Altri dieci anni sono passati, e tutto è tornato da capo: Eno pubblica album di ‘canzoni’ con John Cale in “WRONG WAY UP“, da solo con “NERVE NET” (che fin dal titolo suggerisce commistioni cyb-org e cyberpunk fra ‘rete’ e sistema nervoso, in perfetta sintonia con l’odierno Zeitgeist) e ricostituisce il sodalizio con Bowie; Fripp allestisce un’edizione dei King Crimson che riprende e amplia quella dell’inizio degli anni Ottanta. Per parte sua Bowie si appropria – come già altre volte nella sua carriera – di un linguaggio contemporaneo candidandosi a divenirne un esponente di punta (parallelo alla realizzazione del suo nuovo album “OUTSIDE” è l’incontro e l’annunciata collaborazione con Trent Reznor e i Nine Inch Nails, che ‘cita’ quella della simile valenza fra Neil Young e i Pearl Jam).

All’epoca del primo album dei Tin Machine (1989) Bowie aveva dichiarato “Per la mia integrità fisica e psichica avvertivo chiaramente la necessità di cambiare registro musicale concentrandomi su un rock viscerale”. Dopo due dischi con i Tin Machine e l’album solista “BLACK TIE WHITE NOISE“, Bowie ha corretto il tiro; il rock ‘viscerale’ e il grunge sono alle spalle, il nuovo paesaggio è quello della contaminazione fra aalta tecnologia della comunicazione e nuovi comportamenti tribali, con l’accento su pratiche estreme: i ‘nuovi primitivi’ che intervengono sul proprio corpo, la fascinazione (colorata di indifferenza) nei confronti di crudeltà, assassinio, morte. La musica di “OUTSIDE” è, analogamente, un catalogo – verticale più che orizzontale – di suoni e generi che si incontrano e accordano in una chiave per lo più ossessiva e inquietante. Ventun anni dopo “DIAMOND DOGS” e quasi vent’anni dopo “LOW” e “HEROES” non c’è più bisogno di inventare scenari post-atomici quali quelli di “Five years” (“ZIGGY STARDUST“) , o “Future legend” (“DIAMOND DOGS“): i mutanti, gli ‘scary monsters and super creeps‘, sono qui, nella società e nell’arte. Se all’epoca del primo album dei Tin Machine Bowie aveva scelto un atteggiamento di ‘denuncia’ verso fenomeni come la pulsione di morte insita nella mentalità protestante (“I Can’t Read“: “i soldi vanno nel paradiso del denaro, i corpi vanno all’inferno del corpo”) e la curiosità morbosa verso le scene di violenza e morte in televisione (“Video Crime“: “Cerco carne calda: falla a pezzetti – sangue sul video, crimine video – cannibale nella notte profonda”), si è dovuto rendere conto che queste tematiche permeano così profondamente l’industria culturale tanto ‘ufficiale’ quanto ‘alternativa’ (ormai solo superficialmente diverse) che la cosa cool e politically correct da fare non è dunque denunciare il fenomeno, ma accettarlo/cavalcarlo. L’origine di questo mutamento, che coinvolge ben più che il solo Bowie e “OUTSIDE“, va cercato verso la fine degli anni Ottanta.

Il 9 ottobre 1989 alcune delle personalità più importanti della critica d’arte internazionale si incontrava all’American Academy di Roma per discutere in una tavola rotonda il tema “Arte 70-90: quale prospettiva?”. Presiedeva Germano Celant, critico italiano membro della direzione del Guggenheim Museum di New York, uno dei supremi templi e ‘stanze dei bottoni’ dell’arte contemporanea mondiale (internazionalmente noto dalla fine degli anni Settanta come il teorizzatore dell’arte povera, Celant fu autore già nei primi anni Settanta di saggi pionieristici sull’uso artistico di media quali video, disco e libro). Oltre a Celant partecipavano alla tavola rotonda Ida Pannicelli (allora direttore di “Artforum”, la più autorevole rivista d’arte contemporanea d’America), Ingrid Sischy (già caporedattore di “Artforum”, nel 1989 scriveva su “New Yorker”), Thierry de Duve e Thomas McEvilley (due tra i più importanti estetologi americani) e Denys Zacharopoulos (eminente curatore e critico di origine greca ma attivo in Germania, direttore aggiunto di “Documenta 9”).

Uno dei punti salienti della discussione fu una sorta di ‘previsione’ sul corso che avrebbe preso l’arte contemporanea negli anni Novanta: nel corso del decennio – si disse – l’arte, abbandonando il rampantismo e lo yuppismo che avevano caratterizzato l’arte degli anni Ottanta (in sintonia con l’ideologia allora dominante incarnata da personaggi come Reagan e Thatcher), sarebbe tornata alle tematiche sociali e politiche care agli anni Settanta, prendendo in considerazione temi come il corpo, la malattia (in particolare l’AIDS), la guerra, la morte. Questa previsione (che somigliava molto a un editto) si è puntualmente avverata, oltre che nel campo dell’arte, anche in quello collaterale della fotografia, influenzando inevitabilmente forme di massa quali la letteratura di consumo, il cinema, la moda,la pubblicità, il video e l’immaginario rock. Sono diventati o tornati di grande attualità quegli artisti che hanno trattato i loro temi (già cari a George Bataille) dell’erotismo associato alla sofferenza, alla crudeltà, alla religione; oltre a un pionere quale Francis Bacon, che usava ancora il mezzo tradizionale della pittura, fotografi quali Joel-Peter Witkin (le cui immagini di corpi cadenti, deformi o rozzamente ricuciti sono state ampiamente usate per copertine di dischi), o body artists come Hermann Nitsch e il gruppo degli ‘azionisti’ austriaci, che dagli anni Sessanta hanno praticato, suscitato scandalo ma anche molta eccitazione, ‘rituali’ a base di corpi umani nudi, sangue e interiora calde e palpitanti di vittime animali. Questa nuova ondata internazionale è stata consacrata fra l’altro dalle Biennali di Venezia del 1993 e del 1995, che hanno presentato ad esempio opere quali la vacca e il vitello sezionati e posti in teche trasparenti da Damien Hirst o le fotografie di veri freaks e di persone ‘normali’ deformate per mezzo del computer di Nancy Burson.

A tutto questo si è accompagnato un ulteriore ritorno di interesse verso William Burroughs, in particolare verso gli aspetti ‘estremi’ della sua opera e della sua vita. Questi sono alcuni elementi dello sfondo su cui va collocato “OUTSIDE“, in particolare la narrazione che lo accompagna i e i suoi supporti visivi (a cominciare dal video di “The Heart’s Filthy Lesson“, pieno di riferimenti visivi ai sanguinosi ‘rituali’ di Herman Nitsch). Le pulsioni estatico-erotico-distruttive sono ibridate con la tecnica burroughsiana del cut-up (il taglio e montaggio casuale), che dai testi delle canzoni si trasferisce all’ambito corporeo: leggere, per credere, il delirante “Diario di Nathan Adler o L’omicidio artistico rituale di Baby Grace Blue“, che funge da introduzione ai testi di “OUTSIDE“. I personaggi della rappresentazione – la ‘futurista tirannica’ Ramona A. Stone, l’outsider Leon Blank, il ‘ricettatore di apparizioni’ Algeria Touchshriek, il detective professore Adler, l’Artista/Minotauro… – creano un vero e proprio dramma musicale, una specie di Singspiel brechtiano rovesciato in cui la sofferenza non prevede alcun riscatto, a meno che la sofferenza sia il riscatto (ma Bowie non aveva interpretato nel 1982 proprio un lavoro giovanile di Brecht “Baal“?). “OUTSIDE” è previsto come il primo di una serie di album che dovrebbe concludersi alla fine del 1999, e proprio alla fine del 1999 è ambientata la storia narrata dei “Diari di Nathan Adler“, quando viene ritrovato il cadavere mutilato di Baby Grace Blue. Adler indaga su quello che riconosce come un ‘crimine artistico’ (una forma deviata di body art, una sorta di ermetizzazione di Hermann Nitsch)…Bowie dissemina la narrazione di citazioni: l’episodio dell’artista Ron Athey che incide con un bisturi dei ‘motivi’ sulla schiena del nero Darryl Carlton richiama alla memoria il racconto di Kafka “Nella colonia penale“; diversi dettagli della storia rimandano a luoghi e climi del cinema di David Lynch; abbondano i riferimenti colti ad artisti e scrittori contemporanei (nel “Diario di Nathan Adler” si citano esplicitamente NitschDamien Hirst, il suicidio di Mark Rothko, e implicitamente Burroughs); il gioco di voci diverse che Bowie usa per i vari personaggi, infine, ricorda da vicino analoghe operazioni di Laurie Anderson. Tutto in “OUTSIDE” è accortamente concepito e realizzato, dalla musica alle immagini alla confezione ai gadgets (riproduzioni in plastica di gambe e braccia sanguinolente, derivate da analoghe realizzazioni degli artisti inglesi Dinos & Jake Chapman), ma non risulta troppo derivativo per essere genuinamente ‘artistico’, nonostante Bowie cerchi oggi di farsi accettare come artista tout court lavorando ad esempio con Damien Hirst e trovando sostegno proprio di Ingrid Sischy, che lo ha intervistato per “Interview”, la rivista fondata da Andy Warhol che oggi Sischy dirige.

Per Bowie il rock è da sempre un assortimento di materiali sonori e visivi da indossare come i costumi e le scene di play, in inglese ‘rappresentazione’ ma anche ‘gioco’. Ogni rappresentazione viene replicata fino a che il pubblico la gradisce, quindi il gusto muta e l’attore/giocatore deve avere l’intelligenza di capire quale genere di rappresentazione vestirà lo spirito della prossima epoca. Inoltre, come l’avanguardia artistica e più vicino a noi un maestro della comunicazione di massa come Eno, si può usare una ‘strategia obliqua’: lavorare sull’anticipo, cambiare gioco quando quello che si fa funziona ancora per spiazzare, sorprendere, eccitare il pubblico: “Non credo serva a molto fare niente nell’arte a meno che non sconvolga”, diceva Bowie già nel 1973. Una simile prospettiva, intrinsecamente cinica, presuppone un costante rialzo della posta in gioco; così, se all’epoca di Ziggy Stardust i coups de thèatre di Bowie si basavano sui temi dell’ambiguità sessuale, della condizione ‘aliena’ e dell’incombente annientamento atomico, “OUTSIDE” orbita attorno allo spettacolo della crudeltà e dell’assassinio come suprema droga eccitante: nessuna immagine è mai abbastanza estrema da saziare l’appetito, e l’occhio che guarda è indifferente al dolore perché non si identifica mai col torturato. Non molto diverso è l’atteggiamento di una stella dell’arte odierna quale Andrei Serrano, che è passato con sorridente indifferenza, per il semplice gusto di ‘andar oltre’, da immagini di crocifissi immersi nell’orina a fotografie di sangue, sperma ed eiaculazioni, fino tableaux a grande scala di dettagli di corpi martoriati, dilaniati, carbonizzati ripresi negli obitori.

Jacopo Benci.

Autore

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    La Crew al timone di David Bowie Italia | Velvet Goldmine è formata da Daniele Federici e Paola Pieraccini. Daniele Federici è organizzatore di eventi scientifici ed è stato critico musicale per varie testate, tra cui JAM!. È autore di un libro su Lou Reed del quale ha tradotto tutte le canzoni. Paola Pieraccini, imprenditrice fiorentina, è presente su VG fin dall'inizio e lo segue dagli anni '70. Entrambi hanno avuto modo di incontrare Bowie come rappresentanti del sito.

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